Una città intera ha trattenuto il fiato, poi è esplosa in un boato che si è sentito fin sotto le Due Torri. Cinquantuno anni dopo l’ultima volta, il Bologna torna ad alzare al cielo la Coppa Italia, e lo fa piegando il Milan in una notte che sarà leggenda. Il gol di Ndoye al 54’ ha scritto l’epilogo perfetto di un viaggio partito da lontano, fatto di sacrifici, promesse mantenute e una fede incrollabile nei propri mezzi.
Una fede che ha viaggiato su quattro ruote lungo l’Appennino, portando trentamila anime rossoblù a occupare metà Olimpico in quella che resterà la più grande migrazione calcistica della storia felsinea.
Il timbro finale lo mette Ndoye, ma questa è la vittoria di un’idea. Di Vincenzo Italiano, arrivato a Bologna dopo tre finali perse con la Fiorentina, e oggi finalmente uomo del destino. Il suo Bologna ha giocato con coraggio, lucidità e controllo. Ha messo sotto un Milan spento, fragile, in balia di se stesso e dei propri fantasmi. Ha vinto senza barcollare, senza sbavature. Da grande squadra.
L’approccio è stato chiaro sin dai primi minuti: pressing alto, linee strette, idee chiare. Il Milan ha avuto un paio di lampi nel primo tempo, ma si è affidato più al talento individuale di Leao che a un’identità collettiva. Al contrario, i rossoblù sono cresciuti con il passare dei minuti, guadagnando campo e fiducia. Il primo tempo si è chiuso in equilibrio, ma con una sensazione palpabile: il Bologna c’era. Il Milan, no.
Il gol decisivo arriva nei primi dieci minuti della ripresa. Un pallone sporco, un’area affollata, un attimo di esitazione: Ndoye ci crede più di tutti, elude due difensori e trafigge Maignan. È la scintilla. Lo stadio esplode, la panchina si svuota, e il sogno prende forma.
Il Milan, colpito, non trova la forza per reagire. Jovic delude, Pulisic si spegne, e nemmeno i cambi — dentro anche Joao Felix e Chukwueze — smuovono l’inerzia di una gara che ormai ha un solo padrone. Skorupski assiste, quasi da spettatore, alla lenta dissoluzione rossonera.
Per i rossoneri, questa finale rappresenta il simbolo perfetto di una stagione fallita. Partita con ambizioni di gloria, culminata con l’illusoria Supercoppa di gennaio, e poi smarritasi tra tensioni interne, confusione tecnica e incapacità di reagire nei momenti chiave. Ora a Milanello si apre una nuova stagione, quella della ricostruzione.
All’opposto, a Casteldebole si respira un’aria da rinascimento. I pilastri sono solidi: una squadra giovane, talentuosa, guidata da un tecnico che ha saputo trasformare promesse in certezze. Il ritorno in Europa è realtà, e non sarà solo una passerella: il Bologna vuole restare tra i grandi.
Al triplice fischio, la notte dell’Olimpico si è tinta di rossoblù. Lacrime, cori, bandiere al vento e un trofeo che mancava da più di mezzo secolo. Un popolo che ha creduto quando tutto sembrava impossibile, ora sogna a occhi aperti.
Nel calcio, ogni tanto, la bellezza si fa giustizia. E questa volta, ha scelto Bologna.
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