
Viveva a Roma dal 1950, una vita. E aveva scritto regolarmente dal 1978 per le pagine culturali di un quotidiano milanese, il «Corriere della Sera». Eppure l’opera di Raffaele La Capria, scomparso all’età di 99 anni, era imperniata su Napoli: la metropoli dove era nato e con la quale si era confrontato di continuo nella sua attività di scrittore, sceneggiatore, saggista. Per lui era la «Foresta Vergine» capace d’inghiottire ogni cosa. L’aveva definita «una città che ti ferisce a morte o t’addormenta, o tutte e due le cose insieme». Ma Dudù, come era chiamato familiarmente, non aveva mai smesso di evocarla, amarla e spronarla a ripensarsi. In fondo non se ne era mai veramente andato.
A Napoli era ambientato il suo capolavoro Ferito a morte (Bompiani, poi Mondadori), il romanzo con cui aveva vinto il premio Strega nel 1961. Un denuncia vibrante del malgoverno partenopeo era il messaggio del film Le mani sulla città, con cui insieme al suo amico regista Francesco Rosi, che lo aveva diretto nel 1963, La Capria si era aggiudicato da sceneggiatore il Leone d’Oro al Festival del cinema di Venezia. A Napoli e alle cause della sua decadenza civile è dedicata la sua opera saggistica più acuta e originale, L’armonia perduta (Mondadori, 1986).