Nel mezzo del cammin mi ritrovai in una città oscura e travagliata, ché la dritta via s’era smarrita ormai, e l’aria greve d’ombre era fasciata. “Perdete ognun speranza in questo intento!” gridan le mura d’un borgo fumoso; Lì stan gli stolti che il potere agogna, giù nei gironi d’ambizione cieca, tra lingue sciolte e l’eco della gogna. Eterno è il coro: chi promette pecca, chi tace trama, e chi tradisce sogna; Marano è porta dove il mondo arreca. Alzai lo sguardo, e vidi, sopra i quai, muri scrostati e gloria consumata; le voci erano vane, i sogni guai, e ogni speranza, a lungo, calpestata. “O tu che giungi a questo loco infame,” gridò un’ombra dal volto insospettato, “sappi che qui si perde nome e brame. Ogni virtù si scioglie in un peccato, né salva il forte né consola il clame: qui regna il buio, e il mondo è cancellato.” così nel mezzo del cammin, tra buche e sterco, giunsi in un borgo d’ombre assai scure, ove ogni promessa si fa un deserto e il menestrello regna tra le rovine pure. stava in alto, col piglio coperto, grida: “Faremo!”, ma nessuno ha cure, ché Bocchetti scrive, feroce e esperto, con articoli taglienti come armature. A fianco, il maestro di eloquenza, e di ogni disciplina gran cultore che urla: “Sveglia! Qui tutto va malore!” Tra gironi di strade in un mare mortale Marano è pur sempre un inferno fatale. Caronte, remo alzato, traghettava *l’ampio fiume di carte e di proclami, ove ogni speranza ormai mancava, sepolta da inganni, da liti e infami. “Oh anima errante,” disse col cipiglio, *“tu vuoi vedere il suo amministratore il capo ed il suo regno? *Seguimi allora, io son tuo consiglio, ti porto al disastro ch’è il suo impegno.” E così cominciò il viaggio nell’inferno politico, dove i gironi accoglievano le anime in preda ai loro peccati più grotteschi, in un’eterna lotta tra narcisi e indecisi.
*Primo Girone politico : il gran menestrello e gli ignavi* Là dove il cerchio accoglie gli esitanti, tra chi il destino mai volle affrontare, stava , pronto a declamare: “Non ci son soldi!”—i suoi canti incessanti. Marano langue, tra buche e rimpianti, le scuole chiuse, il buio da domare, e lui, , par sempre a tentare di evitare il peso ai passi pesanti. “Chi sei,” gli chiedo, “che qui stai sospeso, senza combatter né lasciar fiorire, la tua città in rovina hai difeso?” E lui risponde, con tono a svanire: Io fui di quel paese colui che declamò “ Non v’è rimedio, e, io non posso agire.” seduto a un gran banchetto, ma sulla tavola, vuote eran le coppe: “Io porto il futuro, lo giuro col petto,” ma intanto il paese si rendeva di zoppo. Le strade sfondate, di verde promesso e il popolo urlava, da tempo oppresso.
*Secondo Girone: Penna fiammante e i Giornalisti Dannati*
Più giù vido, la penna fiammante a brandire, tra giornali che ardevan, come fuoco eterno: “Io critico il potere, lo voglio colpire, smascherare i peccati del Comune inferno!” Eppur, a ogni attacco, pareva che il male crescesse più forte, immune al suo dire. Il duello con il menestrello restava immortale, Don Camillo e Peppone due eterni rivali . “tu parli di progresso e ragione, ma nulla cambi; sol porti parole!”. “Penna fiammante” rispose, “tanto facemmo in questi lunghi anni: da Maurone il fiorentino a Rodolfino tutti caddero sotto le mie ire. Il tuo è un sermone: critiche sterili, voce da solone e tanto fumo”. E così, tra liti e frecciate velenose, si consumava questa lotta antica.
*Terzo Girone: la rossa e i Narcisi Politici*
Al centro del cerchio, ove specchi brillavano, stava la rossa col volto alzato al sole: “Io voto per voi, “Chi sei che qui tra i vani specchi avanzi, e porti insegne d’ogni convenienza, mutando il volto con gran leggerezza, pur di far sì che il mondo sempre ti stanzi?”. Risponde allora, senza indugio o scansi: “Io son la rossa d’arte e d’apparenza, ogni occasione è la mia appartenenza, ché del riflesso vivo, e non dei sensi.” “Ma dimmi,” chiedo, “a che giova il tuo lustro, se ogni bandiera hai al vento sacrificato, e il tuo cammino è fatuo, senza un fine?” Ella sorrise, e l’eco fece un brusio: “Non cerco meta, né un regno immacolato, mi basta il lume che il mio nome imprime.”
*Quarto Girone: il filosofo peripatetico dulcamara*
Scendemmo poi dove l’eco ruggiva, era il filosofo che tra rabbie cantava: “Io vedo le colpe, il torbido ch’arriva, distruggo le voci, ché nulla vi lava!” Tra i cieli alti del pensiero profondo, ecco dilcamara, che in veste di saggio, scruta il destino del vasto paesaggio, tra il mondo intero e il maranese mondo. Peripatetico, lento cammina, con passo assorto e sguardo contemplante, riflette i fatti d’una vita distante, filosofo errante tra l’alba e la brina. “Chi sei,” gli chiedo, “che da antico fondo discendi, ex medico e uomo di viaggio, con mente acuta e spirito di ingaggio, ma che alla lotta hai detto un no profondo?” Risponde allora con calma severa: “Fui della Dc un tempo consigliere, ma scelsi il silenzio, lasciando la sfera. Non rinunciai al mio pensier valere, racconto ora il mondo e la sua chimera, ché il vero potere è nel osservare.” “Oh Grillo,” dissi, “non vedi gli affanni? Rovina non basta per costruir di sotto.”
*Il professore e il Girone delle Voci Sperdute*
Infine giunsi ove, in solenne preghiera, stava il professore , bandiera d’antico, ché destro parlava, con forza severa, ma intorno a lui s’udiva il niente nemico. “La legge difendo, ma invano combatto,” gridava al vento, con voce vibrante, e pur tra le anime, nessuno mai scatto, ché sol la politica seguiva distante. Tra i dannati che un tempo vollero il trono, eccolo, il professore , con penna affilata, scrive di un mondo che mai l’ha abbracciata, politica spenta, caduto padrone. “Chi sei,” domando, “che in versi e rancore scagli sentenze da critico esperto, ma il tuo passato rimane deserto, eco di lotte mai giunte al valore?” “Fui professore e politico un giorno, ma il sogno svanì, ora scrivo il declino, osservo, colpisco, e pungolo attorno.” “Ma dimmi,” insisto, “qual è il tuo destino? Ristare a Marano tra inchiostro e ritorno, o cercar pace nel dubbio cammino?” Alfine tornai, dal viaggio ferito, nel mondo reale, ove ancor si trascina: Marano, paese che dorme e sfinito, dimentica tutto, tra scherno e rovina. Caronte mi disse: “Qui fine non c’è, ché il ciclo ritorna, tra scuse e promesse.
Ghino di tacco
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