Quando la piazza esplode è tutto un rincorrersi di voci. “Parolin, Parolin, Parolin”. Il cardinale veneto, più precisamente vicentino, artefice dell’accordo sulla nomina dei vescovi in Cina e alla fine finito sul banco degli imputati durante le congregazioni generali come esecutore della politica e delle (ultime) volontà di Francesco, non ce l’ha fatta. Anche il caso Becciu, il cardinale escluso all’ultimo dal Conclave ha pesato. Grande favorito in partenza, suo malgrado interpreta ora il detto ’chi entra Papa esce cardinale’.
I bergogliani e i curiali, il partito romano in testa, sono arrivati divisi alla meta. I loro candidati forti come il sinodale Mario Grech, il francese in dialogo con i migranti, Jean Marc Aveline, la punta di diamante della Comunità di Sant’Egidio, l’Onu di Trastevere, Matteo Zuppi, non hanno convogliato fin dall’inizio i voti sufficienti. Parolin sembrava essere la carta sicura, rassicurante, trasversale che poteva mettere d’accordo un collegio cardinalizio diventato improvvisante orfano di Francesco, subito però archiviato e messo in soffitta con le su riforme, le sue aperture a cento all’ora. Al primo scrutinio è stato testato, ma praticamente anche subito bruciato. Troppo forte la continuità con Francesco. Nel suo inner circle, chi lo ha seguito e sostenuto in questi anni di navigazione come segretario di Stato di Bergoglio, è fortissima la delusione, palpabile. Ma c’è anche una certa rassegnazione.
La candidatura di Robert Prevost ha cominciato ad emergere nel ricevimento Commonwealth dove si sono riuniti tutti i cardinali di area anglofona, dagli inglesi al sudafricano Stephen Brislin, (un bianco), passando per le isole Tonga, il Pakistan, l’India. Lì ha cominciato a convogliarsi una certa opposizione a questo segretario di Stato divenuto improvvisamente ingombrante, una possibile eredità troppo forte. Anche la sua provenienza, italiana, non ha giocato in suo favore. L’Italia è ormai una periferia dell’Occidente e i cardinali asiatici e africani hanno voluto affidarsi a qualcuno che, tutto sommato, è in grado di parlare direttamente con il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.
A tirare le somme di un Conclave incerto ma che in breve tempo doveva diventare risolutivo, è stato in Cappella sistina, Timothy Dolan, il cardinale di New York, alla sua seconda prova come conclavista. Un Conclave durato appena due giorni, con un Papa eletto al quarto scrutinio, passerà alla storia. Il primo americano del Nord, ma così immerso e vicino con il Sud America dove ha servito come missionario in Perù. Dolan, l’uomo del presidente americano Donald Trump in Vaticano, si conferma un ’king maker’ di primissimo ordine, ha giocato un ruolo di primo piano, come era già stato al precedente Conclave quando perfezionò la candidatura di Jorge Mario Bergoglio ma poi ne rimase deluso. Dolan ha lavorato per ricucire le anime divise della Chiesa americana. Gli anti trumpiani come Mc Elroy, Wilton Gregory e i super conservatori alla Di Nardo e lo stesso Dolan hanno capito che era arrivato il momento di giocare come una squadra.
© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews