La salute? Dipende (solo) per il 25 per cento dalle cure

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La salute? Conta più chi sono (o erano) i nostri genitori, dove si vive, il livello di istruzione e il lavoro che si fa che non le cure ricevute. Lo evidenziano non uno ma ben due studi recenti, entrambi pubblicati a inizio dicembre 2017: «L’Italia per l’equità nella salute», elaborato dai quattro Enti vigilati dal ministero della Salute (Istituto nazionale per la promozione della salute delle popolazioni migranti e per il contrasto delle malattie della povertà, Istituto superiore di sanità, Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali e Agenzia italiana del farmaco) e «Diseguaglianze sociali e stato di salute – Rompere il circolo vizioso», che riguarda l’Europa occidentale ed è a cura del Deloitte Centre for Health Solutions.

«C’è un dato emblematico: l’assistenza sanitaria incide solo al 25 per cento, la genetica al 15 per cento e l’ambiente al 10 per cento», commenta Guido Borsani, Public Sector Leader Italia di Deloitte. Il resto lo fanno le determinanti sociali: casa, alimentazione, reddito, istruzione, occupazione, trasporti e sicurezza. «La mancanza di accesso all’assistenza medica e stili di vita non sani, tradizionalmente addotti a giustificazione delle disuguaglianze nello stato di salute, spiegano solo in parte il fenomeno», dice Borsani.

Quel che conta sono gli aspetti sociali della vita. E le disuguaglianze cominciano sin dal grembo materno: un basso peso alla nascita è associato a condizioni socio-economiche povere e può causare svantaggi dal punto di vista socio-sanitario sia nell’infanzia sia in età adulta. Il tasso di deprivazione dei ragazzi sotto i 16 anni è legato al livello di istruzione dei genitori e i ragazzi di famiglie svantaggiate sono spesso soggetti a stress psico-emotivi come conflitti familiari e instabilità derivanti da risorse inadeguate, sono meno spronati all’esercizio fisico o a un’alimentazione sana e sono maggiormente a rischio di obesità. In età adulta la disoccupazione o la bassa retribuzione, la difficoltà di conciliare il lavoro con la famiglia e un reddito sicuro sono tutti problemi che minacciano la salute psico-fisica. Un reddito inferiore è correlato a una maggiore prevalenza di obesità e di fumo.

Insomma: chi è più istruito, ha un buon lavoro e una casa confortevole è destinato a stare meglio. E lo ha messo in luce anche il report predisposto dal ministero della Salute con gli enti Inmp, Agenas, Iss e Aifa. Tra i dati che più colpiscono c’è la variazione dell’aspettativa di vita in funzione del titolo di studio: a 30 anni un laureato può aspettarsi di vivere tre anni in più rispetto a un coetaneo che ha fatto solo la scuola dell’obbligo. L’Istat ha avviato uno studio a partire dai dati del censimento del 2011 che – tra l’altro – ha misurato proprio le disuguaglianze nell’aspettativa di vita e nella mortalità per livello di istruzione. I maschi che avevano al massimo la licenza media inferiore presentavano un anno e mezzo di svantaggio rispetto a quelli con la maturità, i quali a loro volta si trovavano in svantaggio di un anno e mezzo a confronto con i laureati. In generale, i meno istruiti sopravvivono di meno dei più istruiti sia al Nord sia al Sud, a dimostrazione che la povertà individuale di risorse e competenze – di cui il basso titolo di studio è un indicatore – compromette la salute indipendentemente dalla ripartizione geografica. A parità di età, molti degli stili di vita scorretti sono più frequenti tra i meno istruiti. Soltanto il 13 per cento delle persone con un’alta istruzione fuma, numero che sale al 22 per cento tra chi ha frequentato al massimo la scuola dell’obbligo. Analogamente, solo il 7 per cento di chi ha un titolo di studio elevato è obeso e il 52 per cento è sedentario, contro il 14 per cento e il 72 per cento tra i meno istruiti. Lo stesso accade per il consumo adeguato di frutta e verdura.

Nemmeno l’avanzare degli anni rende giustizia sociale. «Fino alla metà degli anni 2000 – analizza il report di Deloitte – si pensava che il divario tra istruiti e meno istruiti o tra ricchi e poveri non influisse sugli anziani. Si riteneva che l’età avesse un effetto di “livellamento” delle disuguaglianze socio-economiche, ma studi trasversali hanno dimostrato che esiste una relazione diretta tra svantaggio socio-economico e aumento del rischio di disabilità, malattie croniche, depressione e riduzione delle funzioni cognitive in tutte le fasce d’età. E il rischio di contrarre malattie croniche aumenta dal 30 al 65 per cento per le persone anziane appartenenti alle fasce socio-economiche inferiori».

© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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