Gentile dottore, le scrivo dopo una lunga riflessione sulla vita, sul futuro, sul mio rapporto di coppia. Sono una “giovane” sposa in avanti con l’età, tra qualche mese compio 39 anni, mio marito ne ha 40. Dopo alcuni anni di assestamento, ho cominciato a pensare di allargare la famiglia, come dovrebbe essere naturale, mi aspettavo dunque entusiasmo e propositi positivi da parte di mio marito, che invece elude l’argomento o si esprime con brevi frasi, del tipo “non è il momento ancora”, “stiamo così bene così”, dobbiamo proprio rinunciare alla nostra libertà”, “un figlio di questi tempi?” e via dicendo. Cosa celano le sue elusioni? Una madre (mia suocera) ancora presente, ma dura e fredda da sempre, poco amorevole, può influenzare il bisogno di paternità di un uomo che vuole restare figlio e rinuncia a essere padre?
Maria (Mugnano)
Il tema che ci propone la nostra lettrice implica dinamiche complesse, che toccano la parte più profonda della persona, dove è implicato il proprio vissuto, il rapporto con i genitori, le proprie dinamiche esistenziali e i conflitti, che stanno lì a caratterizzare quelle parti che vivono ancora nel chiaroscuro. Proviamo a guardare la cosa dalla parte del bambino che arriva in questa vita, in cui si trova catapultato non per sua scelta: che cosa ne può essere della sua esistenza, se non viene accolto nel suo bisogno d’amore in un abbraccio forte come solo quello di un padre può essere? Non è la forza fisica a dare consistenza ad un abbraccio che diventa tale solo quando riesce a trasmettere la propria capacità di contenimento, arginando l’angoscia che il neonato vive al momento della nascita. Un padre accoglie il figlio, lo sente nel suo bisogno di riconoscimento, facendolo diventare come il “proprio figlio”, quello che lui stava aspettando.
La scelta di mettere al mondo un figlio mette tutto in discussione, soprattutto quelle sicurezze che per Freud spesso barattiamo a discapito della felicità, e che denotano un ancoraggio alla propria vita passata, perché ogni cambiamento, così come ogni separazione, viene percepito nella sua incognita e nella percezione riduttiva di se stesso. “Non mi sento pronto!”, “non riuscirei a essere all’altezza!”, “non sarei un buon genitore!”. Questo lo si sente dire spesso, come se tutto dovesse essere scandito in senso cronologico; ma è chiaro che laddove la risposta tende a evadere la domanda, è necessario andare più nel profondo, mettere in chiaro ciò che è sotteso al diniego, e scoprire forse una nuova consapevolezza di sé, che cela nell’insicurezza il presupposto positivo della giusta preoccupazione di quello che sarà un genitore sufficientemente buono, che vuole diventare tale solo se e quando si renderà conto che il modello ideale non esiste e che esponendosi al rischio di un fallimento si sta orientando al pensiero indispensabile per la riuscita di un nuovo progetto di vita: la nascita del padre! La propria rinascita.
Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta
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