Gentile dottore, sono una madre molto giovane: ho 30 anni e i miei figli sono già in età scolare, iscritti in prima elementare e in prima media. Con la prima sono stata molto apprensiva, e la mia ansia purtroppo le ha impedito, a volte, di imparare a fare le cose più banali, come per esempio nuotare. Con il secondo, il maschietto, ho decisamente cambiato rotta, spingendolo ad affrontare le difficoltà e ad avere fiducia in sé, cosa che lo ha reso pieno di iniziativa. Forse ho fatto danni e forse ne farò, perché non ti insegnano da nessuna parte a fare i genitori. Ma certo non arrivo agli estremi di quella madre che, come ho visto sul famigerato tik tok, ha finto davanti al figlio di poco più di 1 anno di disperarsi per una sua caduta inesistente, per verificare se la sua disperazione potesse indurre il figlio al pianto pur non essendosi fatto male. Noi siamo veramente e totalmente responsabili della vita, del carattere, del destino dei nostri figli? Io credo di sì… e quel padre che, in seguito alla morte certo dolorosissima della propria creatura tramite un colpevole gioco su internet, non può assolversi dicendo che aveva piena fiducia della figlia. E’ comunque colpevole. Io ho questa opinione e vorrei conoscere il suo pensiero. Grazie in anticipo.
Annamaria da Melito
Nel nome della madre si dà inizio alla vita (Lacan); una vita che inizia con le prime forme di
riconoscimento di sé attraverso lo sguardo che viene poggiato sul bambino da parte della madre. Sarà sempre quello sguardo ad accompagnare il piccolo per sempre, facendolo sentire al centro di un progetto di vita elaborato per lui ancora prima della propria nascita. Una comprensione che porterà la mamma a far sì che quello sguardo non sia mai invasivo fino a confondersi con i bisogni dell’altro, uno sguardo attento e capace di evitare ansie e preoccupazioni personali che, proiettate sull’altro, possono solo rallentare i processi evolutivi dei figli, fatti soprattutto di affetti ed emozioni. Amare il proprio figlio vuol dire
consegnarlo alla vita, metterlo a contatto con la libertà, che sarà necessaria per fargli affrontare in modo personale gli ostacoli che incontrerà sulla propria strada. Quanti di noi ci riescono? Non è semplice; lo psicanalista Winnicott parla di genitore sufficientemente buono, intendendo per esso quello pronto a mettersi in discussione, per fare del dubbio il punto di partenza di ogni forma di relazione. Riconoscere la propria ansia, la propria preoccupazione, nel veder crescere il proprio figlio, nel vederlo cambiare i propri
comportamenti, che tendono a diventare con il tempo sempre più simili a quelli dei coetanei e meno a quelli dei familiari. Il pensiero che atteggiamenti viziati possano caratterizzare anche la propria creatura, crea sgomento. Ognuno di noi è convinto che il proprio figlio è diverso e mai assumerebbe o farebbe cose tendenzialmente pericolose per sé e per gli altri. Quante volte sentiamo dire negli studi di psicoterapia “non me lo aspettavo” “eppure ho sempre parlato con lui”… Ecco forse più che parlare bisognerebbe
ascoltare i propri figli, non perdere mai quello sguardo che è stato posto su di lui nei primi giorni di vita. L’assenza di esso può portare i ragazzi (e non solo) a cercare forme di rassicurazione e di approvazione in altri luoghi, soprattutto attraverso lo schermo virtuale. Cosa è una challenge? Una sfida giocata al limite delle proprie possibilità, delle proprie risorse, che, come nel caso della piccola di Palermo, può sfociare in morte quando non riesci più a controllarla. A chi ci si mostra attraverso uno schermo, se non ad un pubblico invisibile, pronto ad applaudire e ad accompagnare approvando quello che si fa anche senza guardare? Nessuno sguardo approverebbe un comportamento di morte, come viene approvato dalla mancanza di esso. Nessuno sguardo ti fa sentire solo come quando esso non c’è. Nessuna vita può considerarsi tale se si pensa di condurla da soli senza nessuno che ti guarda.
Dott, Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta
virgilioraffaele@gmail.com