C’erano 9,15 nanogrammi per grammo di “bromadiolone” nel fegato di Giulia Tramontano. Nel fegato del piccolo Thiago, il bimbo che portava in grembo, solo 0,29 perché la placenta in cui stava crescendo ha fatto da barriera. Ha cercato di preservarlo dal veleno per topi che per mesi suo padre, Alessandro Impagnatiello, ha somministrato a sua madre prima di ucciderla con 37 coltellate lo scorso 27 maggio.
Giulia probabilmente si era accorta che qualcosa non andava. Durante i primi mesi di gravidanza, quando Thiago era solo un puntino, aveva scritto ad una amica “Mi sento una pezza, ho troppo bruciore di stomaco”. Sempre a dicembre, stando all’informativa degli investigatori, Impagnatiello avrebbe cercato on line il motivo per cui il veleno non stesse facendo effetto, quanto tempo ci voleva perché agisse, salvo scoprire poi che perdeva potenza se somministrato con “bevande calde”. Un altro dettaglio, non da poco, che confermerebbe appunto la tesi per cui Impagnatiello cercava di avvelenare la compagna e il piccolo Thiago già da tempo.
Dalle analisi, comunque, non è stato però possibile rilevare con assoluta certezza se la somministrazione sia avvenuta per un periodo più ampio di tempo con piccole dosi o in un’unica volta con un elevato quantitativo. I carabinieri della squadra omicidi del nucleo investigativo di Milano e la pm Alessia Menegazzo, titolare dell’inchiesta per omicidio pluriaggravato, propendono però per la prima ipotesi. Anche perché a gennaio il barman dell’Armani bamboo bar – che aveva ammazzato la compagna dopo che lei aveva scoperto la sua doppia vita e la sua altra fidanzata, una compagna – aveva cercato online “quanto veleno per topi è necessario per uccidere una persona”.