Il finto pentimento del trafficante che riempiva le navi di cocaina

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Asseriva di stare per essere ricevuto in udienza da Papa Francesco, si dichiarava pronto a donare il midollo osseo a una madre disperata in cerca del trapianto del figlio, dopo 17 complessivi anni in carcere (soprattutto per una tonnellata di cocaina sequestrata nel porto di Livorno nel 2000) si dipingeva ormai ex trafficante internazionale nell’autobiografia «Malabellavita», impreziosita nel 2013 dalla prefazione della senatrice pd Stefania Pezzopane: per metà gigioneggiando sulle tante star di Hollywood e del calcio conosciute tra Ibiza e Miami negli anni in cui si vantava anche d’essere stato il primo a introdurre la droga sintetica ecstasy in Italia, e per metà recitando la parte del non più criminale (ma mai pentito, «il tabacco uccide più della droga»), che riteneva di avere da insegnare a Roberto Saviano («Mi fa ridere, non sa niente, trascrive gli atti che gli mettono in mano i magistrati»).

La «neve» nel parquet

Ma ieri il pm dell’antimafia milanese Paolo Storari ha ordinato il fermo d’urgenza dell’appena 49enne Gennaro «Rino» Bonifacio per la quasi fotocopia della sua precedente vita: l’importazione di 118 chili di cocaina dalla Colombia, sequestrati nel porto di Livorno (una vera fissazione come meta) a dispetto dell’ingegnoso occultamento dentro tavolette di legno parquet nel container del cargo «Maersk Nexoe» salpata dal Cile. È il 13 ottobre 2016 quando, senza che venga divulgato, la Procura di Reggio Calabria e il «Goa» della Guardia di Finanza di Catanzaro, che con gli americani della «Dea» stavano indagando sul fornitore colombiano Fernando Ronal Alfonso Cuesta, rivoltano da cima a fondo il cargo a bordo del quale avevano intuito un carico monitorato da un italiano («Io della vendita mi sono occupato poco…solo dell’import…Ho trovato un cliente che prende tutto…Ti avranno gia avvisato dell’arrivo della bestia…»). La «Dea» passa agli italiani il codice di questo cellulare in contatto con il colombiano, esile filo da cui tentare di identificare il destinatario dei 118 chili di coca.

Gli investigatori non sanno chi sia lui, ma lui non sa che loro, dopo due fallite ispezioni delle migliaia di tavolette, alla terza hanno capito che dentro quelle raccolte da un certo tipo di laccio, se lì si fora il legno, si trovano 100 grammi avvolti in carta carbone: 118 chili in tutto. Tolgono la droga e, al suo posto, dentro i fori mettono microspie ambientali e localizzatori Gps. Al punto che, quando Bonifacio e i suoi complici impazziscono per il fatto di non trovare la droga attesa («Stiamo trapanando…E nulla…Erano gli unici con legacci…Non lo trovo cazz… Nun c’è una mazza…»), prima pensano non possa essere stata la polizia («se volevano beccarci ci facevano stamattina»), poi ipotizzano un errore di carico, «secondo me hanno imballato male loro», infine temono fregature, «se li sono rubati…».

I contatti coi colombiani

La perdita del carico spinge Bonifacio a cercare alternative, che la Squadra Mobile di Milano intercetta sulle chat di BlackBerry che i trafficanti pensano sicure. Ecco così in diretta i contatti con colombiani che cercano un acquirente per i residui 200 chili di una partita di due tonnellate per il resto già prenotata dai clan. Ecco l’affare piccolo ma veloce (con l’albanese Orion Kristo pure fermato ieri) di 5 chili di coca dall’Olanda. Ed ecco l’irritazione verso due svizzeri dai quali farsi restituire 200.000 euro: «Devono morire…Mi farò max 10 anni se mi beccano».

© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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