Marano, caso Galeota: tutte le falle delle amministrazioni comunali: dal 2004 al 2014. Ecco la sentenza integrale

0
1.861 Visite

Tutti gli errori compiute dalle amministrazioni comunali di Marano, a partire dal 2004, passando per il 2007 e finendo nel 2014. Ecco cosa dicono i giudici del Consiglio di Stato sul caso Galeota, un complesso residenziale che non poteva sorgere in un’area agricola. I tanti errori commessi dalle varie giunta e dall’ufficio tecnico, tra cui la revoca della sospensione di un’ordinanza che imponeva lo stop ai lavori (anno 2004-2005) e i ritardi nell’adozione dei provvedimenti di demolizione o di altra natura, come la revoca della Dia, avvenuta solo nel 2014, hanno fatto sì che si consolidassero situazioni irregolari e una matassa che oggi è difficile da sbrogliare.

Nello specifico ecco cosa dice il Consiglio di Stato.

2. I ricorrenti hanno impugnato la sentenza pronunciata dal Tar Campania, deducendone l’erroneità con l’articolazione di sette motivi di appello.
3. La Città Metropolitana di Napoli si è costituita in giudizio, in resistenza all’appello.
4. Le parti appellanti hanno insistito nelle proprie conclusioni con il deposito di memoria difensiva in data 28 luglio 2022.
5. Gli appellanti con note di udienza del 27 settembre 2022 hanno chiesto la decisione della controversia.
6. La causa è stata trattenuta in decisione nell’udienza del 29 settembre 2022.
7. Il ricorso in appello – ritualmente notificato via pec (anche) all’Amministrazione comunale e all’Amministrazione provinciale (presso il procuratore costituito in primo grado), nonché alla Regione (presso l’indirizzo di cui agli artt. 16, commi 12 e 13, e 16 ter, comma 1 ter, D.L. n. 179 del 2012 conv. in L. n. 221 del 2012) – è articolato in sette motivi di impugnazione, diretti a censurare le rationes decidendi a sostegno della sentenza gravata.
8. In particolare, con il primo motivo di impugnazione i ricorrenti deducono l’errore in cui sarebbe incorso il Tar nel ritenere i motivi aggiunti proposti in prime cure incentrati sulle medesime doglianze svolte con il ricorso principale.
8.1 Secondo la prospettazione attorea, i ricorrenti avrebbero contestato, altresì, l’avvenuto annullamento dei medesimi provvedimenti rilevanti nell’odierno giudizio, per effetto di due pronunce intervenute in favore di soggetti titolari di una posizione del tutto analoga.
In particolare, con decreto presidenziale del 27.11.2017 (previo parere di questo Consiglio, n. 1716/2016 del 27 luglio 2016) era stato accolto un ricorso straordinario avverso l’atto di annullamento d’ufficio della medesima DIA in contestazione nell’odierno giudizio, nonché, con sentenza del Tar Campania, Napoli, n. 1045 del 2019, era stata annullata la medesima ordinanza di demolizione impugnata nella presente sede
processuale. Tali pronunce avrebbero prodotto effetti favorevoli anche per gli odierni ricorrenti, trattandosi dell’annullamento di atti aventi un contenuto inscindibile.
8.2 Il motivo di appello è infondato.
8.3 Diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti, seppure il decreto del Presidente della Repubblica emesso nel 2017 a definizione del ricorso straordinario sia idoneo alla formazione della cosa giudicata (Cass. Sez. V, Ord., 17 maggio 2019, n. 13389), nella specie un tale giudicato, formatosi nei rapporti tra il Comune e parti private diverse dagli odierni appellanti, non potrebbe essere invocato erga omnes.

Come rilevato dall’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 4 del 2019), “i casi di giudicato amministrativo con effetti ultra partes sono, quindi, eccezionali e si giustificano in ragione dell’inscindibilità degli effetti dell’atto o dell’inscindibilità del vizio dedotto: in particolare, l’indivisibilità degli effetti del giudicato presuppone l’esistenza di un legame altrettanto indivisibile fra le posizioni dei destinatari, in modo da rendere inconcepibile – logicamente, ancor prima che giuridicamente – che l’atto annullato possa
continuare ad esistere per quei destinatari che non lo hanno impugnato” .
Nel caso di specie, il decreto presidenziale del 2017 cit. ha disposto l’annullamento di un provvedimento
(“di annullamento in autotutela del Comune di Marano di Napoli, prot. n. 28890 del 28/10/2014”) che,
sebbene connotato da un contenuto analogo a quello dell’atto censurato in prime cure (come emergente
dalla descrizione dei fatti di causa operata nel parere n. 1716/16 cit.), assumeva rilevanza autonoma,
avendo come destinatari (particolari) soggetti diversi dagli odierni appellanti.
Per l’effetto, l’annullamento disposto in sede straordinaria, in quanto relativo ad atti formalmente diversi e
autonomi da quelli censurati nell’odierno giudizio, non potrebbe essere invocato, ai sensi dell’art. 2909 c.c.,
in funzione conformativa della decisione da rendere a definizione della presente controversia.
Parimenti, non risulta riscontrabile un giudicato ultra partes in relazione alla sentenza n. 1045/19 del Tar Campania, Napoli.
In particolare, il Tar ha rilevato che “a seguito dell’accoglimento con decreto del Presidente della Repubblica del 27.11.2017 dell’impugnativa a suo tempo spiegata dai ricorrenti dei presupposti provvedimenti del Comune di Marano di Napoli del 28 ottobre 2014 e del 5 novembre 2014, con i quali era stato disposto l’annullamento in autotutela della denuncia di inizio attività (DIA) n. 21450 del 16 agosto 2004 e successiva
variante n. 2591 del 30 novembre 2005, in forza dei quali era intervenuta la demolizione e successiva ricostruzione del fabbricato oggetto dell’ingiunta demolizione, appare evidente che l’ordinanza di demolizione gravata nel presente giudizio, che richiama e presuppone il provvedimento di annullamento in autotutela del titolo edilizio, oramai annullato dal Capo dello Stato, ha perso il suo necessario presupposto di legittimità”.
Ne deriva che l’annullamento dell’ordinanza di demolizione è stato disposto per un vizio riferibile alla sola posizione dei relativi ricorrenti – dato dalla caducazione dell’atto di autotutela, per effetto dell’accoglimento di un precedente ricorso straordinario – che non risultava comune agli altri proprietari, quali gli odierni appellanti, destinatari di autonomi provvedimenti di autotutela.
Di conseguenza, neppure la sentenza n. 1045/19 cit. potrebbe rappresentare un giudicato vincolante, produttivo di effetti erga omnes, suscettibile di conformare la decisione da assumere nella presente sede, facendosi questione di una pronuncia di annullamento di un atto plurimo scindibile per vizi relativi alla sola posizione delle parti vittoriose in sede di ricorso straordinario.
9. Con il secondo motivo di appello viene censurato il capo decisorio con cui il Tar ha ritenuto sussistenti i presupposti per il riesame ex art. 21 nonies L. n. 241/90.
9.1 Secondo la prospettazione attorea, l’intervento di autotutela sarebbe avvenuto in violazione del termine ragionevole ex art. 21 nonies L. n. 241/90 e in assenza di un’adeguata motivazione. Il primo giudice avrebbe pure errato nel ritenere ammissibile un intervento in autotutela sulla base di circostanze sopravvenute o di un diverso apprezzamento della situazione preesistente, trattandosi di elementi che avrebbero potuto essere valorizzati a fronte di un atto di revoca, ma non di un provvedimento
di annullamento d’ufficio, nella specie assunto in ragione di un asserito contrasto dell’intervento edilizio con la normativa urbanistica al tempo vigente, con conseguente emersione di un presunto profilo di illegittimità originaria.

Parimenti, sarebbe erroneo il riferimento alla carenza di un collegamento tra l’intento manifestato e la differente attività successivamente posta in essere, tenuto conto che nella specie l’attività edilizia risultava conforme rispetto a quella dichiarata in sede di presentazione della denuncia di inizio attività.
Peraltro, nella specie, la pratica amministrativa concernente la DIA era stata caratterizzata da un’attività istruttoria approfondita, culminata con l’adozione dell’ordinanza n. 60 del 2004, mediante cui il Comune aveva ritenuto insussistenti le contestate difformità ed illegittimità.
Per l’effetto, “il provvedimento di annullamento, quindi, si configura come una reiterazione di una iniziativa già assunta dieci anni prima, ancorata ai medesimi presupposti già oggetto di contestazione e di valutazione, e ritenuti già in quella sede, a seguito di articolata istruttoria, non idonei a legittimare l’adozione di atti sanzionatori da parte della medesima Amministrazione Comunale” (pag. 22 appello).
Il Comune, inoltre, avrebbe già avviato nel 2007 il procedimento preordinato all’annullamento in autotutela della DIA, provvedendo alla sua archiviazione per l’insussistenza dei presupposti legittimanti l’azione di secondo grado.
Il provvedimento censurato in prime cure avrebbe pure leso il legittimo affidamento dei ricorrenti, totalmente estranei alla “vicenda” edilizia, acquirenti dell’immobile per cui è causa in totale buona fede, riponendo un’assoluta fiducia sulla legittimità e stabilità del titolo edilizio. Non avrebbe potuto neppure rilevarsi una non veritiera o parziale prospettazione del precedente proprietario, tenuto conto che non sarebbe predicabile una condotta omissiva ovvero reticente da parte del richiedente la D.I.A., quanto piuttosto una contestata (quanto infondata) inconciliabilità dell’intervento edilizio con la normativa urbanistica.
9.2 Il secondo motivo di appello deve essere trattato congiuntamente al quarto motivo di impugnazione, avente ad oggetto il capo decisorio mediante cui il Tar ha valorizzato l’individuazione della -OMISSIS- quale bene da tutelare.
Secondo quanto dedotto dall’appellante, nessun vincolo di tutela sarebbe stato apposto sull’immobile in parola, non essendo sufficiente la mera delibera comunale.
Trattasi di censura afferente pur sempre all’insussistenza di un’adeguata motivazione sull’interesse pubblico specifico giustificante l’intervento in autotutela; profilo già censurato con il secondo motivo di appello.
Per ragioni di connessione, pertanto, i due motivi di appello (secondo e quarto) sono suscettibili di esame congiunto.
9.3 Al fine di vagliare le censure attoree, giova richiamare la successione degli eventi che hanno dato luogo all’odierno giudizio. Alla stregua di quanto riportato nel provvedimento n. 2211/14 cit. e di quanto emergente dai documenti acquisiti al giudizio, risulta, in particolare, che:
– in data 16 agosto 2004 è stata presentata dal dante causa degli odierni appellanti una DIA (prot. n. 21450)
per lavori di demolizione e ricostruzione a parità di superficie, volume e sagoma di un fabbricato definito –
OMISSIS-;
– in data 22 settembre 2004 il Comune odierno appellato ha adottato l’ordinanza n. 36 di sospensione dei
lavori per mancato versamento degli oneri dovuti per il costo di costruzione;
– in data 23 settembre 2004 la medesima Amministrazione ha adottato l’ordinanza n. 37 di sospensione dei
lavori per il mancato deposito dei calcoli al Genio Civile;

– in data 24 settembre 2004 il Comune ha adottato un’ulteriore ordinanza (n. 38) di sospensione dei lavori per le stesse ragioni di cui all’ordinanza n. 37;
– in data 11 ottobre 2004, con nota n. 28259, la Soprintendenza per i Beni Architettonici ed il Paesaggio e per il Patrimonio Storico Artistico di Napoli ha osservato che l’immobile per cui è causa, seppure non vincolato, era di interesse storico ed inserito nell’elenco degli edifici da tutelare;
– in data 21 ottobre 2004 il Comune ha adottato l’ordinanza n. 49, con cui ha rilevato che: a) l’edificio era
ubicato nella zona agricola E3 del PRG; b) la documentazione presentata attestava l’inesistenza di cospicue parti che venivano riedificate; c) vi era un evidente difetto di corrispondenza tra lo stato dei luoghi preesistente e la rappresentazione grafica; d) i grafici non risultavano fedeli allo stato dei luoghi come da rilievi aerei; e) l’edificio era stato censito tra quelli da conservare e tutelare; f) i documenti catastali
dichiaranti l’esistenza di abitazioni, negozi e depositi erano stati presentati all’Agenzia del Territorio solo poco prima della presentazione della DIA; g) il dante causa degli odierni appellanti non era legittimato a presentare denuncia per l’attività edilizia per tutte le unità immobiliari; h) gli interventi edilizi in esame, quali la realizzazione di 27 abitazioni, 9 negozi e 28 box auto in luogo di un antico insediamento rurale, avevano bisogno di un permesso di costruire, perché la DIA era da ritenere comunque insussistente. Tenuto
conto che al momento non erano state eseguite altre opere se non la demolizione completa,
l’Amministrazione ha ordinato la messa in sicurezza del cantiere, diffidando dall’esecuzione di ogni ulteriore intervento di trasformazione dello stato dei luoghi;
– in data 22 dicembre 2004 è stata rassegnata una relazione istruttoria dell’UTC, in cui si rilevava che: a) lo stato dei luoghi antecedente non era difforme da quello riportato nei grafici; b) il dante causa degli odierni appellanti, da un lato, era legittimato ad eseguire l’intervento perché delegato dai precedenti proprietari che, in seguito, gli avevano venduto tutte le unità immobiliari, dall’altro, aveva consegnato tutti i documenti richiesti; c) era possibile consentire l’attività edilizia di cui alla DIA del 16.8.2004, n. 21450; – in data 22 dicembre 2004 il Comune ha assunto l’ordinanza n. 60, con cui ha revocato le precedenti ordinanze nn. 38 e 49 del 2004;
– in data 30 novembre 2005 è stata presentata una DIA in variante n. 2591 per esigenze correlate all’organizzazione del cantiere e alla sequenza delle fasi lavorate, nonché all’ottimizzazione dell’impianto strutturale dei telai sismo-resistenti e dell’assetto distributivo funzionale delle unità immobiliari; – in data 24 marzo 2014 la Tenenza dei Carabinieri di Marano con nota n. 39551/70/1, comunicando di avere in corso un’attività di notifica del provvedimento di dissequestro penale emesso dall’autorità
giudiziaria in relazione al complesso edilizio -OMISSIS-, da un lato, ha invitato l’Ufficio tecnico comunale ad attivare verifiche circa i provvedimenti amministrativi in materia urbanistica tesi ad accertare la legittimità delle opere realizzate, emanando appositi provvedimenti, nel caso di riscontro di anomalie o illeciti anche
di carattere penale; dall’altro, ha rappresentato che una buona parte degli immobili in esame risultava sottoposta a sequestro preventivo dell’11.5.2012;
– in data 10 giugno 2014 è stata predisposta una relazione istruttoria in riscontro a quanto chiesto dalla locale Tenenza dei Carabinieri, in cui si rilevava che: a) l’intervento proposto contrastava con quanto disposto dall’art. 51 NTA del PRG, che non consentiva interventi diretti sugli immobili, prevedendo la preventiva approvazione di un Piano di Recupero; b) l’intervento contrastava anche con l’art. 27, comma 4, L. n. 457/78 (art. 9 DPR n. 380/2001), non essendo mai stato concordato e trascritto in favore del Comune
alcun atto relativamente ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, della percentuale di immobile mantenuta ad uso residenziale, risultando, di contro, poste in essere vendite con prezzi di mercato di numerose unità immobiliari del complesso edilizio a soggetti estranei all’operazione immobiliare condotta dal denunciante; c) non erano state dimostrate la veridicità e la legittimità delle destinazioni d’uso degli immobili preesistenti; d) la DIA presentata in data 16.8.2004 risultava priva di tutte le asseverazioni prescritte dagli artt. 22 e ss. DPR n. 380/01 e s.m.i. da rendersi a cura del progettista; e) le superfici di
progetto residenziali e commerciali erano superiori alle superfici preesistenti, e comunque alle superfici legittime dei corpi di fabbrica preesistenti; f) il volume di progetto era superiore a quello degli immobili preesistenti.
Alla stregua di tali rilievi, con il provvedimento del 6 agosto 2014 impugnato in prime cure, riscontrate le osservazioni presentate dalla parte privata, il Comune intimato ha annullato in autotutela la DIA n. 21450 del 16/08/2014 e la successiva variante n. 2591 del 30.11.2005, richiamando il “prevalente interesse pubblico alla tutela del territorio ed alla corretta edificazione secondo gli strumenti di pianificazione e regolamentari vigenti nel Comune di Marano di Napoli”, nonché la nota n. 28529 dell’11.10.2004 cit. in ordine all’interesse storico dell’immobile.
Il medesimo Comune in data 16 aprile 2015, con ordinanza n. 10, per effetto dell’annullamento d’ufficio della DIA, ai sensi dell’art. 38 DPR n. 380/01, ha disposto la demolizione (altresì) dell’immobile di proprietà degli odierni appellanti.
9.4. Come correttamente rilevato dall’odierno appellante, i motivi di ricorso proposti nell’ambito dell’odierno giudizio sono analoghi a quelli dedotti con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica da altri comproprietari, titolari di un diverso immobile sito in Marano di Napoli, nell’ambito dello stesso
complesso denominato “-OMISSIS-”.
Le censure svolte in sede straordinaria sono state accolte con decreto presidenziale del 7.11.2017. Come emergente dal parere n. 1716 del 27 luglio 2016 prodotto dai ricorrenti in primo grado, reso nell’ambito del procedimento introdotto con ricorso straordinario, questo Consiglio ha rilevato un difetto di motivazione inficiante l’operato amministrativo, sia “sul punto dell’esistenza di un interesse pubblico all’annullamento d’ufficio, differente dal mero interesse al ripristino della legalità urbanistico-edilizia, e prevalente rispetto ai contrapposti interessi privati potenzialmente lesi dall’atto di ritiro”, sia sulla tardività
dell’intervento amministrativo, tenuto conto che “i provvedimenti di annullamento in autotutela sarebbero dovuti intervenire entro un termine ragionevole dall’adozione degli atti ritirati”.
Le statuizioni rese da questo Consiglio in sede straordinaria costituiscono un precedente di cui tenere conto nella soluzione dell’odierna controversia.
Evidenti esigenze di certezza del diritto oggettivo inducono, infatti, ad evitare una divergenza tra le interpretazioni giurisprudenziali, se non quando sussistano elementi sicuri – nella specie non emergenti – per attribuire prevalenza alla tesi contraria a quella in precedenza affermata.
9.5 Anche nel caso di specie si discorre di un atto di annullamento d’ufficio della DIA n. 21450 del 2004 (e della relativa variante), non corredato da un’adeguata motivazione in ordine alla sussistenza di un interesse pubblico all’annullamento d’ufficio, differente dal mero interesse al ripristino della legalità urbanistico- edilizia e prevalente rispetto ai contrapposti interessi privati potenzialmente lesi dall’atto di ritiro, tenuto conto, altresì, delle pregresse verifiche svolte dal Comune e del rilevante arco temporale (circa dieci anni) intercorso fra la denuncia di inizio attività e l’intervento provvedimentale per cui è causa. Come precisato da questo Consiglio, “l’autotutela non può, infatti, essere finalizzata al mero ripristino della legalità violata, ma deve essere il risultato di un’attività istruttoria adeguata che dia conto della valutazione dell’interesse pubblico e di quello del privato che ha riposto affidamento nella conservazione dell’atto”
(Consiglio di Stato, Sez. IV, 28 giugno 2017, n. 3154). Con particolare riferimento alla materia edilizia, l’Adunanza Plenaria di questo Consiglio (n. 8 del 2017) ha inoltre rilevato che l’annullamento d’ufficio di un titolo edilizio, intervenuto ad una distanza temporale considerevole dal provvedimento annullato, deve essere motivato in relazione alla sussistenza di un interesse pubblico concreto e attuale all’adozione dell’atto di ritiro anche tenuto conto degli interessi dei privati destinatari del provvedimento sfavorevole, precisando, comunque, che il mero decorso del tempo, di per sé solo, non consuma il potere di adozione dell’annullamento d’ufficio, nonché che l’onere
motivazionale gravante sull’amministrazione può ritenersi attenuato in ragione della rilevanza e autoevidenza degli interessi pubblici tutelati.
La successione degli eventi supra descritta non consente di ritenere rispettate le condizioni previste dall’art. 21 nonies L. n. 241 del 1990 – ulteriori rispetto alla riscontrata illegittimità dell’atto ritirato (oggetto dei successivi motivi di appello) – per come precisate dalla giurisprudenza di questo Consiglio.
9.6 Al riguardo, giova in primo luogo evidenziare che nella specie non si discorre soltanto dell’annullamento d’ufficio di una DIA a distanza di dieci anni, ma anche di un riesame svolto a seguito di un precedente procedimento di verifica conclusosi con determinazione amministrativa favorevole alla parte privata.
In particolare, come osservato, il Comune appellato, nel dicembre 2004, dopo avere sospeso i lavori e diffidato l’istante dalla prosecuzione dell’attività edilizia – da un lato, ravvisando una difformità tra l’intervento edilizio dichiarato e la normativa urbanistica di riferimento, dall’altro, riscontrando l’incompletezza e l’erroneità dei documenti presentati -, aveva riesaminato le proprie decisioni, revocando le precedenti ordinanze di sospensione lavori e di diffida.
L’Amministrazione, in particolare, aveva ritenuto che la DIA fosse compatibile con la disciplina urbanistica e la documentazione progettuale risultasse veritiera e completa.
A fronte di tale determinazione, l’ulteriore riesame disposto nel 2014 con l’atto censurato in primo grado, a distanza di dieci anni, non risulta adeguatamente motivato.
9.7 Come rilevato da questo Consiglio nel parere n. 1716 del 2016, anche nel caso esaminato, il Comune si è limitato a richiamare il contrasto della DIA con la normativa urbanistica vigente e “… il prevalente interesse pubblico alla tutela del territorio ed alla corretta edificazione secondo gli strumenti di pianificazione e regolamentari vigenti …”., in tale modo ponendo a base del provvedimento censurato un mero interesse al
ripristino della legalità. Tale interesse non potrebbe, tuttavia, essere sufficiente a supportare in modo idoneo un provvedimento assunto ai sensi del combinato disposto degli artt. 19 e 21 nonies L. n. 241/90, per di più intervenuto quasi a dieci anni di distanza sia dalla denuncia di inizio attività – sulla base della quale erano state realizzate
numerose attività su immobili nel frattempo trasferite a terzi -, sia del precedente provvedimento del dicembre 2004 (n. 60), con cui erano stati ritirati i precedenti atti inibitori dell’attività privata, riscontrandosi la sussistenza dei presupposti legittimanti l’intervento edilizio denunciato.
Il Comune avrebbe dovuto, dunque, spiegare “perché le illegittimità riscontrate fossero talmente gravi da giustificare l’eliminazione dal mondo giuridico di un effetto autorizzatorio, in virtù del quale sono state realizzate plurime unità immobiliari nel frattempo cedute a terzi e perché siffatto interesse, mai effettivamente curato nel corso di ben dieci anni, fosse nel 2014 divenuto prevalente sugli altri interessi privati coinvolti, tenuto conto del fatto che l’immobile non risulta vincolato (come risultante dagli atti)” (parere n. 1716 del 2016 cit.).
Parimenti, il Comune ha anche omesso di motivare perché il decorso di dieci anni dal perfezionamento della DIA fosse un termine ragionevole in relazione all’esercizio dell’autotutela: “nondimeno l’amministrazione non avrebbe potuto omettere di motivare sulla ragionevolezza del lasso temporale intercorso rispetto all’epoca dell’adozione dell’atto da annullare” (parere n. 1716 del 2016 cit.).
9.8 Non potrebbe giungersi a diverse conclusioni argomentando sulla base della pendenza di un procedimento penale: “L’autonomia che connota i rapporti tra il giudizio penale e il procedimento amministrativo avrebbe difatti consentito all’amministrazione comunale di provvedere molto tempo prima del 2014, anche perché la sussistenza di profili di dubbia legittimità della DIA in questione erano ampiamente emersi fin dal 2004 e poi ancora nel 2006 a seguito del sequestro disposto dalla magistratura penale” (parere n. 1716 del 2016 cit.). Del resto, nel caso esaminato, da un lato, la comunicazione che ha avviato il procedimento di riesame promanava dalla Tenenza dei Carabinieri e aveva ad oggetto soltanto la rappresentazione dell’esistenza di
un sequestro preventivo delle opere (e di un provvedimento di dissequestro in corso di notificazione), con invito rivolto al Comune di svolgere le verifiche di competenza, senza la specifica indicazione di nuovi elementi istruttori all’uopo valorizzabili ai fini del riesame; dall’altro, il Comune era ben consapevole della pendenza di un processo penale sui fatti di causa, emergendo dalla sentenza del Tribunale penale di Napoli
in atti (n. 5008/13) che il Comune di Marano di Napoli si era costituito parte civile in sede penale, con costituzione ammessa sin dal 4 novembre 2009 (come accertato dalla Sezione in controversia analoga con sentenza n. 6405 del 2021 prodotta dall’appellante nell’odierno grado di giudizio). Sicché, anche tenuto conto di tale data, che dà conto della conoscenza da parte del Comune dell’esistenza del processo penale, il decorso di altri quattro anni in assenza di azioni amministrative in autotutela risultava idoneo a ingenerare in capo al privato un legittimo affidamento sulla conservazione delle utilità
acquisite per effetto dell’attività edilizia denunciata, tale da richiedere una motivazione rafforzata alla base del provvedimento per cui è causa.
9.9 Non potrebbe diversamente argomentarsi neppure valorizzando la giurisprudenza formatasi in materia di dichiarazioni false ed erronee, la cui presentazione è in effetti idonea ad escludere un legittimo affidamento in capo al privato, con la conseguenza per cui l’onere motivazionale gravante sull’amministrazione può ritenersi soddisfatto attraverso il documentato richiamo alla non veritiera prospettazione di parte.
Nella specie, l’Amministrazione aveva infatti già messo in dubbio la veridicità delle dichiarazioni di parte, ritenendo, tuttavia, all’esito di apposite verifiche all’uopo svolte, che le stesse fossero complete e veritiere. Qualora l’Amministrazione, dopo avere negato l’utilità richiesta dal privato in ragione di dichiarazioni
erronee o false rese dal destinatario, proceda in via autonoma ad attribuire o riconoscere nuovamente la medesima utilità all’istante, la determinazione amministrativa in ultimo assunta non potrebbe ritenersi inficiata dalle false dichiarazioni della parte, ma soltanto da un errore, imputabile all’Amministrazione, in ordine alla ritenuta completezza e correttezza della documentazione esaminata (cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 15 marzo 2021, n. 2224).
Nel caso di specie, il Comune aveva già percepito la possibile erroneità delle dichiarazioni di parte, per l’effetto adottando tre ordini di sospensione dei lavori e diffidando il denunciante dalla prosecuzione dell’attività edilizia denunciata; successivamente, il medesimo Comune, esaurita l’attività di controllo, ha ritenuto di revocare i precedenti ordini di sospensione, in tale modo permettendo la prosecuzione dell’attività edilizia.
La nuova determinazione assunta a regolazione del rapporto sostanziale non poteva ritenersi condizionata da dichiarazioni false o erronee, costituente il presupposto giustificativo dell’attenuazione dell’obbligo motivazionale gravante sull’Amministrazione procedente, bensì risultava determinata da una valutazione amministrativa, incentrata sulla ravvisata completezza e veridicità della documentazione presentata a corredo della DIA; il che dà vita ad una positiva decisione amministrativa suscettibile di fondare il legittimo affidamento del privato sulla conservazione dell’utilità così acquisita sul piano sostanziale.

9.10 Infine, non potrebbe ritenersi idoneo a sostenere il provvedimento censurato in prime cure neppure il riferimento alla nota n. 28259 dell’11.10.2004 della Soprintendenza in ordine all’interesse storico dell’immobile.
Difatti, la valutazione della Soprintendenza, da un lato, non si è tradotta nell’imposizione di un vincolo culturale (storico-artistico), dall’altro, riguardava la conservazione dell’originario complesso immobiliare, tuttavia trasformato dalle opere edilizie realizzate dal denunciante, per effetto della demolizione del fabbricato preesistente con la sua successiva ricostruzione.
Di conseguenza, l’annullamento degli effetti della DIA, a fronte di un’attività edilizia già esaurita, non avrebbe potuto garantire la protezione di un interesse storico-culturale correlato all’originaria conformazione dell’organismo edilizio, ormai non più esistente.
9.11 Alla stregua delle considerazioni svolte, deve pervenirsi all’accoglimento del secondo e del quarto motivo di appello.
Al pari di quanto statuito in sede straordinaria con il parere n. 1716 del 2016 cit., il Collegio ravvisa la violazione dell’art. 21 nonies L. n. 241/90, per la mancata motivazione in ordine all’interesse pubblico specifico perseguito nel caso concreto dall’Amministrazione comunale e alla sua prevalenza sull’interesse privato alla conservazione delle utilità acquisite per effetto dell’attività denunciata, tenuto conto, altresì, sia del rilevante periodo temporale intercorso tra la presentazione della DIA e l’intervento provvedimentale per cui è causa, sia della previa conclusione con esito favorevole al privato di un procedimento
amministrativo di controllo sulla veridicità e completezza della documentazione presentata a corredo della DIA (cfr. ordinanza n. 60 del 2004 cit.).
10. Sebbene l’accoglimento del secondo e del quarto motivo di appello sia idoneo a giustificare la riforma della sentenza gravata e, per l’effetto, l’annullamento del provvedimento impugnato in prime cure, occorre procedere alla disamina delle ulteriori censure, articolate nell’ambito dei successivi motivi di appello,
dirette a contestare l’erroneità della decisione amministrativa anche nella parte in cui ha ravvisato l’incompatibilità dell’attività edilizia con la normativa di riferimento.
L’accoglimento di dette censure potrebbe infatti attribuire agli appellanti un’ulteriore utilità sul piano sostanziale, derivante dal riconoscimento dell’illegittimità del provvedimento n. 2211/14 cit. non soltanto per il difetto di motivazione (sull’interesse pubblico specifico, sulla sua prevalenza rispetto all’interesse privato inciso dall’azione amministrativa e sul rilevante arco temporale intercorso tra la denuncia di inizio attività e l’intervento provvedimentale), ma anche per avere erroneamente escluso i requisiti e i
presupposti legittimanti l’esecuzione dell’intervento edilizio denunciato.
Al riguardo, devono essere presi in esame il terzo, il quinto e il sesto motivo di appello, suscettibili di trattazione congiunta per motivi di connessione, afferendo alle diverse ragioni di incompatibilità dell’intervento edilizio con la disciplina di riferimento, poste a base del provvedimento ex artt. 19 e 21 nonies L. n. 241/90 impugnato dinnanzi al Tar.
10.1 In particolare, con il terzo motivo di appello è censurato il capo decisorio con cui il Tar ha ravvisato la violazione dell’art. 51 NTA PRG e dell’art. 27, comma 4, L. n. 457/98 (oggi, art. 9 DPR n. 380/01), facendosi questione di interventi edilizi su immobili ricadenti in zona E3 (destinata ad attività agricole dirette e connesse con l’agricoltura) soggetta a pianificazione attuativa (piano di recupero) non adottata e comunque per i quali era preclusa la realizzazione di un aumento di volume e di superficie.
Secondo la prospettazione attorea, invece, l’art. 51 NTA consentirebbe interventi di ristrutturazione edilizia, nonché, in assenza di pianificazione attuativa, tali interventi sarebbero stati comunque consentiti dall’art. 9 DPR n. 380/01; sotto tale ultimo profilo, non potrebbe neppure imputarsi in capo alla parte privata la mancata trascrizione in favore del Comune di atti relativi ai prezzi di vendita ed ai canoni di locazione della percentuale di immobili mantenuta ad uso residenziale, tenuto conto che l’Amministrazione non avrebbe
disposto alcunché in ordine alla richiesta di concordare e trascrivere siffatto vincolo a proprio favore. Peraltro, l’omesso pagamento del contributo di costruzione non avrebbe potuto influire sulla legittimità del titolo abilitativo, così come la sottoscrizione della convenzione in assenza di piani attuativi non avrebbe
potuto essere imposta per le ristrutturazioni edilizie (operando solo per le nuove costruzioni). L’’Amministrazione avrebbe inoltre contraddittoriamente contestato sia la violazione dell’art. 51 NTA del PRG, sia la violazione dell’art. 27 L. n. 457/78. Un’interpretazione dell’art. 51 NTA in senso ostativo all’intervento edilizio avrebbe, comunque, determinato l’illegittimità della stessa norma pianificatoria per contrasto con l’art. 9 DPR n. 380/01. 10.2 Con il quinto motivo di appello è censurato il capo decisorio con cui il Tar ha escluso che la parte privata avesse dato la prova della veridicità e della legittimità delle destinazioni d’uso degli immobili
preesistenti. Invero, secondo quanto dedotto dall’appellante:
– l’esistenza delle unità immobiliari emergerebbe dalla relazione istruttoria dell’UTC;
– la destinazione d’uso sarebbe parimenti confermata dalla stessa relazione, oltre che dalla memoria difensiva comunale, in cui si discorreva di passaggio dal catasto terrenti al catasto fabbricati, in assenza di interventi modificativi dell’Ente.
10.3 Con il sesto motivo di appello si contestano i capi decisori con cui il Tar ha escluso la possibilità di invocare l’istituto della super-DIA, nonché ha ritenuto incontestato sia che le firme apposte dal progettista fossero prive delle prescritte asseverazioni, sia che dalle verifiche effettuate dall’Amministrazione risultasse un incremento delle superfici utili abitative previste in progetto rispetto a quelle preesistenti.
Secondo quanto dedotto dall’appellante:
– gli interventi di ristrutturazione edilizia comportanti incrementi di volume e superfici, oltre che modifiche di sagoma e prospetti, avrebbero dovuto ritenersi assentiti anche con DIA ex art. 22, comma 3, lett. a), DPR n. 380/01;
– i ricorrenti avrebbero dedotto in prime cure la completezza della documentazione e, comunque, un’eventuale incompletezza avrebbe dovuto essere rilevata con richiesta di integrazione documentale.
10.4 I motivi di appello tendono a denunciare l’insussistenza delle ragioni di illegittimità poste a base del provvedimento di autotutela. Si è, in particolare, in presenza di un atto incentrato su plurime autonome rationes decidendi, ciascuna
idonea a manifestare l’insussistenza dei presupposti legittimanti l’esecuzione dell’intervento edilizio in contestazione.
In particolare, l’Amministrazione ha ravvisato:
– la violazione dell’art. 51 NTA del PRG, non essendo ammissibili interventi diretti sugli immobili, in assenza
della previa approvazione di un Piano di Recupero;
– la violazione dell’art. 27, comma 4, L. n. 457/78, non essendo mai stato concordato e trascritto in favore del Comune alcun atto relativamente ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione, della percentuale di immobile mantenuta ad uso residenziale;

– la mancata dimostrazione della veridicità e della legittimità delle destinazioni d’uso degli immobili preesistenti;
– l’incompletezza della documentazione presentata a corredo della DIA (ritenuta priva di tutte le asseverazioni prescritte dagli artt. 22 e ss. DPR n. 380/01 e s.m.i.);
– l’eccedenza sia delle superfici di progetto residenziali e commerciali rispetto alle superfici preesistenti, e comunque alle superfici legittime dei corpi di fabbrica preesistenti, sia del volume di progetto rispetto a quello degli immobili preesistenti.
A fronte di un atto plurimotivato, questo Consiglio ha precisato che “è sufficiente la legittimità di una sola delle giustificazioni per sorreggere l’atto in sede giurisdizionale; in sostanza, in caso di atto amministrativo, fondato su una pluralità di ragioni indipendenti ed autonome le una dalla altre, il rigetto delle censure
proposte contro una di tali ragioni rende superfluo l’esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento (Cons. Stato, sez. V, 14 giugno 2017, n. 2910; sez. V, 12 settembre 2017, n. 4297; sez. V, 21
agosto 2017, n. 4045)” (Cons. Stato, IV, 30 marzo 2018, n. 2019)” (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 17
settembre 2019, n. 6190).
Per l’effetto, la sussistenza anche soltanto di uno dei vizi di legittimità rilevati dal Comune condurrebbe all’assorbimento delle ulteriori censure impugnatorie, aventi ad oggetto le rimanenti ragioni di illegittimità poste a base del provvedimento impugnato in prime cure, la cui fondatezza non potrebbe comunque escludere l’incompatibilità dell’intervento edilizio con la normativa di riferimento, già acclarata in sede
giurisdizionale (almeno) in relazione ad una delle violazioni in contestazione.
10.5 Al riguardo, si ravvisa la portata assorbente della violazione degli artt. 51 NTA e dell’art. 27 della L. n. 457/78, infondatamente contestata con il terzo motivo di appello.
10.6 Nel soffermarsi sulle censure attoree, si rileva in primo luogo che, diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti, il riferimento all’art. 51 NTA cit. e all’art. 27, comma 4, L. n. 457/78 operato dall’Amministrazione non disvela una contraddittorietà dell’azione provvedimentale.
Alla stregua di quanto emergente dal provvedimento n. 2211 del 2014 e dalla relazione istruttoria n. 1510 del 10.6.2014 (prodotta dall’Amministrazione comunale dinnanzi al Tar) richiamata nello stesso provvedimento conclusivo – come tale idonea ad integrare il contenuto motivazionale della decisione amministrativa, in applicazione del “principio consolidato “per cui nel provvedimento amministrativo la motivazione per relationem deve intendersi ammessa dall’9;art. 3, comma 3, della legge 241 cit. nelle ipotesi
in cui, come nella specie, il provvedimento sia preceduto e giustificato da atti istruttori in esso espressamente richiamati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 22 marzo 2017, n. 1299, e sez. VI, 7 febbraio
2017, n. 542)" (Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2018, n. 1525)" (Consiglio di Stato, sez. II, 18 febbraio 2020, n.
1223) – il Comune ha rilevato che l’area per cui è controversia, interessata dall’intervento edilizio denunciato dal dante causa degli odierni appellanti, risultava conformata dall’art. 51 NTA: tale previsione urbanistica individuava i vecchi casali e le masserie rurali in abbandono quali zone di degrado ai sensi della L. n. 457/78, assoggettabili a piano di recupero di iniziativa privata o pubblica; in tali zone gli unici interventi
ammissibili risultavano il restauro conservativo, con possibilità di modificazione delle destinazioni d’uso ed incremento delle superfici utili con conservazione delle volumetrie esistenti. Il Comune, pure in assenza del prescritto piano di recupero, ha ritenuto “possibile che sull’immobile potessero essere attuati gli interventi secondo quanto previsto dall’art. 27, comma 4 della L. 457/78 (oggi DPR 380/01 art. 9, comma 2)” (cfr. relazione n. 1510/2014): nella specie, tuttavia, una tale possibilità è stata esclusa, “non essendo mai stato concordato e trascritto a favore del Comune alcun atto relativamente
ai prezzi di vendita e ai canoni di locazione della percentuale di immobile mantenuta ad uso residenziale” (provvedimento n. 2211/14).

Per l’effetto, dall’esame del contenuto motivazionale del provvedimento per cui è causa, risulta che l’Amministrazione non si è limitata a rilevare l’incompatibilità dell’intervento con l’art. 51 NTA, ma ha anche ravvisato la mancata integrazione dei presupposti di cui all’art. 27, comma 4, L. n. 457/78. Una tale motivazione non risulta contraddittoria, in quanto l’Amministrazione ha verificato se l’attività edilizia in concreto svolta potesse essere legittimata sia alla stregua delle previsioni urbanistiche dettate dal
Piano Regolatore Generale vigente, sia alla luce della disciplina statale, pervenendo ad una decisione negativa, in ragione della mancata approvazione del piano di recupero e del mancato rispetto della disciplina statale applicabile in assenza dei prescritti strumenti urbanistici di attuazione. L’Amministrazione, in definitiva, non è incorsa in contraddizione, ma ha svolto una disamina completa della fattispecie in esame, avendo escluso la legittimazione dell’attività edilizia alla stregua delle differenti previsioni urbanistiche riferibili all’area interessata dall’intervento in esame.
10.7 La decisione de qua, oltre a non essere contraddittoria, non risulta neppure inficiata da una scorretta applicazione degli artt. 51 NTA al PRG e “27, comma 4 della L. 457/78 (oggi DPR 380/01 art. 9, comma 2)” (cfr. relazione istruttoria).
L’art. 51 NTA cit., diversamente da quanto dedotto dagli appellanti, nell’individuare le masserie quali zone di degrado assoggettabili a piani di recupero, subordinava lo svolgimento dell’attività edilizia alla previa approvazione del relativo strumento urbanistico attuativo (sulla natura dei piani di recupero come strumenti urbanistici attuativi cfr. Consiglio di Stato, sez. II, 25 febbraio 2021, n. 1631).
Per l’effetto, l’attività edilizia denunciata non poteva essere giustificata sulla base dell’art. 51 NTA, occorrendo a tali fini non soltanto l’osservanza del Piano Regolatore Generale, ma anche la previa approvazione del Piano di Recupero, circostanza nella specie non realizzata.
Né avrebbe potuto legittimarsi l’intervento edilizio per cui è causa sulla base del riferimento, operato dall’art. 51 NTA, agli interventi di restauro conservativo.
Una tipologia di intervento edilizio, da un lato, risultava comunque subordinata all’approvazione dello strumento urbanistico attuativo (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 5 marzo 2019, n. 1533), che pertanto avrebbe potuto regolare i soli interventi di restauro conservativo consentiti nella zona in esame (non potendo il piano di recupero derogare alle previsioni del piano regolatore generale – Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 giugno 2010, n. 3744); dall’altro, non corrispondeva comunque all’intervento di ricostruzione e
demolizione oggetto della DIA del 2004 per cui è causa.
Il restauro o risanamento conservativo (art. 31, lett. c) L. n. 457/78 – cfr. art. 3, comma 1, lett. c), DPR n. 380/01) deve essere infatti distinto dalla ristrutturazione edilizia (art. 31, lett. d), L. n. 457/78 – cfr. art. 3, comma 1, lett. d), DPR n. 380/01), suscettibile di tradursi anche nella ricostruzione e demolizione di un organismo edilizio a parità di superficie, volume e sagoma.
Mentre la ristrutturazione può condurre ad un "un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal
precedente", il restauro e il risanamento conservativo “non possono mai portare a ridetto "organismo in
tutto o in parte diverso dal preesistente", avendo sempre la finalità di "conservare l'organismo edilizio"
ovvero di "assicurarne la funzionalità" (cfr. ancora art. 31, lett. c) della L. n. 457 del 1978, traslato
testualmente nell'art. 3, comma 1, lett. c) del D.P.R. n. 380 del 2001)” (Consiglio di Stato, Sez. II, 26
dicembre 2020, n. 8337).
Nel caso di specie, l’intervento edilizio oggetto della DIA del 2004 prevedeva la demolizione con la ricostruzione delle opere, ragion per cui non avrebbe potuto essere ricondotto al restauro conservativo – tipicamente funzionale alla conservazione (e non alla trasformazione) dell’organismo edilizio – l’unica tipologia di intervento ammessa dall’art. 51 NTA.

Parimenti, il riferimento recato nell’art. 51 NTA alle modificazioni delle destinazioni d’uso e all’incremento delle superfici utili, comunque ammesse nell’ambito della zona in esame, non avrebbe potuto condurre ad opposte conclusioni. La modifica delle destinazioni d’uso o l’incremento delle superfici utili ammesse dal Piano Regolatore Generale presupponevano, in ogni caso, oltre che la previa approvazione del Piano di Recupero, la conservazione delle volumetrie esistenti, facendosi questione di interventi pur sempre funzionali alla
conservazione del fabbricato preesistente (scopo tipico del restauro conservativo) e non alla sua demolizione (con relativa ricostruzione), come avvenuto nella specie.
10.8 Gli odierni appellanti non potrebbero neppure fondatamente dedurre l’illegittimità dell’art. 51 NTA per violazione dell’art. 9 DPR n. 380/01.
Secondo quanto censurato in appello, ove si ritenesse che l’art. 51 NTA “consentisse di effettuare solo interventi di restauro conservativo, subordinando la tipologia della ristrutturazione a piano attuativo, si porrebbe in contrasto con quanto disposto dall’art. 9 del D.P.R. 380/01, laddove ammette espressamente gli interventi di ristrutturazione edilizia di cui all’art. 3 comma 1 lett. d) nelle aree nelle quali non siano ancora
stati approvati gli strumenti attuativi previsti dagli strumenti urbanistici generali come presupposto per l’edificazione e per contrasto con la L.R. Campania n. 19/2001 e n. 16/2004” (pagg. 32/33 appello).
Per l’effetto, “del tutto illegittimamente il Comune ha negato che l’intervento richiesto, sussumibile nella ristrutturazione edilizia, possa essere realizzato con titolo abilitativo diretto” (pag. 34 appello). Tali censure non sono aderenti alla ratio decidendi sottesa al provvedimento impugnato. Difatti, l’Amministrazione non ha ritenuto che la disposizione urbanistica recata dall’art. 51 NTA fosse ostativa ad un intervento edilizio diretto, avendo anzi rilevato – nell’ambito della relazione istruttoria
richiamata nel provvedimento impugnato in primo grado-, che “sebbene l’art. 51 affidi ai privati l’iniziativa del Piano di Recupero si ritiene possibile che sull’immobile potessero essere attuati gli interventi secondo quanto previsto dall’art. 27 comma 4 della L. 457/78 (oggi DPR 380/2001 art. 9 comma 2)”, provvedendo,
per l’effetto, a valutare, altresì, l’integrazione dei presupposti previsti dalla normativa statale ai fini dell’esercizio dell’attività edilizia in assenza dei previsti strumenti urbanistici attuativi.
La censura svolta contro l’art. 51 NTA, dunque, è argomentata sulla base di un erroneo presupposto, dato dalla presenza di una disposizione urbanistica locale intesa dall’Amministrazione come ostativa all’applicabilità dell’art. 9 DPR n. 380/01; il che, tuttavia, non costituisce la ratio decidendi alla base del
provvedimento impugnato (incentrato, all’opposto, sull’applicabilità dell’art. 9 DPR n. 380/01, non derogato dall’art. 51 NTA) e, pertanto, non può formare oggetto di una censura esaminabile nella presente sede.
10.9 Il Comune non ha errato neppure nell’escludere l’integrazione dei presupposti di applicazione dell’art. 9, comma 2, DPR n. 380/01.
Al riguardo, in primo luogo, si rileva che tale disposizione, nel prevedere l’impegno a praticare, limitatamente alla percentuale mantenuta ad uso residenziale, prezzi di vendita e canoni di locazione concordati con il comune ed a concorrere negli oneri di urbanizzazione, si riferisce agli interventi di cui alla lett. d) del primo comma dell’art. 3 del DPR n. 380/01, anche se riguardanti globalmente uno o più edifici e volti a determinare la modifica fino al 25 per cento delle destinazioni preesistenti: la locuzione “tali ultimi interventi” impiegata nell’art. 9, comma 2, cit. si riferisce infatti agli interventi per ultimo richiamati, dati
dagli “interventi di cui alla lettera d) del primo comma dell’articolo 3” e, dunque, agli interventi di ristrutturazione edilizia.

Per l’effetto, si fa questione di una previsione normativa applicabile agli interventi di ristrutturazione edilizia, realizzabili anche mediante la demolizione e la ricostruzione a parità di volumetria e sagoma, come avvenuto nella specie (afferendo la DIA del 2004 ad interventi di demolizione e ricostruzione a parità di
superficie, volume e sagoma della -OMISSIS-).
In secondo luogo, si osserva che, come precisato da questo Consiglio, il perfezionamento dell’impegno ex
art. 9, comma 2, DPR n. 380/01 (e, con esso, il previo conseguimento di un’intesa con il Comune) “integra,
invero, specifico presupposto per l’espansione dello jus aedificandi: altrimenti dimostrandosi priva di logico fondamento l’eccezionale assentibilità di titolo edilizio, pur in assenza di strumento attuativo, laddove l’integrazione della condizione in discorso possa venire differita ad un momento successivo ed ulteriore rispetto alla trasformazione edilizia dell’area” (Consiglio di Stato, sez. II, 24 ottobre 2020, n. 6455). Di conseguenza, la decisione comunale risulta corretta anche nella parte in cui ha escluso la sussistenza dei presupposti di legittimazione dell’attività edilizia ai sensi dell’art. 9, comma 2, DPR n. 380/01, non emergendo nella specie alcun impegno assunto dal denunciante ai sensi di tale previsione normativa,
costituente un presupposto per lo svolgimento dell’attività edilizia, in assenza del quale l’intervento di demolizione e ricostruzione comunque eseguito non poteva essere ammesso; né risulta dimostrato l’avvio di alcun percorso preordinato al conseguimento della necessaria intesa con il Comune.
10.10 Sulla base delle considerazioni svolte, l’Amministrazione comunale ha correttamente ravvisato l’insussistenza dei presupposti e dei requisiti abilitativi allo svolgimento dell’attività edilizia, configurandosi un intervento edilizio non ammissibile alla stregua della disciplina urbanistica locale (ex art. 51 NTA al PRG)
e della disciplina statale dettata in materia di attività edilizia in assenza dei previsti strumenti urbanistici attuativi.
Come supra osservato, l’acclarata sussistenza di un’autonoma ragione di incompatibilità dell’attività edilizia
con la disciplina di riferimento assume portata assorbente rispetto alle ulteriori censure attoree (dedotte
nel quinto e sesto motivo di appello), dirette a contestare le rimanenti violazioni riscontrate dal Comune
intimato.
La fondatezza di tali ulteriori motivi di doglianza non consentirebbe di arrecare alcuna utilità concreta agli
appellanti: per effetto dell’acclarata integrazione di un’autonoma ragione di incompatibilità con la
disciplina urbanistica, non potrebbe infatti riconoscersi l’ammissibilità dell’intervento edilizio per cui è
causa e, dunque, non potrebbe censurarsi la correttezza del provvedimento amministrativo impugnato in
primo grado, nella parte in cui ha negato la sussistenza dei presupposti sostanziali legittimanti lo
svolgimento dell’attività denunciata.
11. Con il settimo motivo di appello si contesta il capo decisorio con cui il Tar ha rigettato i motivi aggiunti
proposti avverso l’ordinanza di demolizione.
Secondo la prospettazione attorea, nella specie, ricorrerebbero i presupposti per l’applicazione dell’art. 38
DPR n. 380/01, tenuto conto che l’edificazione eseguita in base ad un titolo successivamente annullato non
sarebbe equiparabile, quanto agli effetti sanzionatori, alla edificazione senza titolo; ricorrerebbe, altresì, la
buona fede dei ricorrenti, estranei alla vicenda relativa alla DIA, con la conseguenza che il provvedimento
censurato non avrebbe potuto ritenersi come avente natura vincolata.
Peraltro, l’ordinanza di demolizione sarebbe stata già annullata dal Tar Napoli con sentenza n. 1045/2019.
Il motivo di appello è fondato.
Per effetto dell’accoglimento del secondo e del quarto motivo di appello, deve disporsi l’annullamento non
soltanto del provvedimento ex artt. 19 e 21 nonies L. n. 241/90, ma anche del dipendente ordine di
demolizione.

L’annullamento giurisdizionale del provvedimento di autotutela ex artt. 19 e 21 nonies L. n. 241//90 determina infatti la reviviscenza del titolo edilizio originario (Consiglio di Stato, Sez. III, 14 gennaio 2013, n. 130), con la conseguente caducazione del presupposto alla base dell’ordinanza di demolizione impugnata con i motivi aggiunti in primo grado.
Il Comune, infatti, ha emesso un ordine di demolizione ai sensi dell’art. 38 DPR n. 380/01 in ragione dell’avvenuto annullamento d’ufficio del titolo edilizio (cfr. il riferimento, operato nell’ordine di demolizione, sia all’annullamento in autotutela della DIA prot. 21450 del 16.8.2004 e successiva variante prot. n. 2591 del 30.11.2005, sia, per l’effetto, all’art. 38 DPR n. 380/01).
Una volta ripristinato ex tunc il titolo edilizio (stante l’effetto retroattivo dell’annullamento giurisdizionale dell’atto di riesame), l’ordinanza di demolizione non risulta più sorretta da un’adeguata causa giustificatrice, essendo incentrata su un presupposto insussistente, dato dall’emersione di un immobile, appartenente agli odierni appellanti, oggetto di un titolo edilizio annullato e non più efficace.
Per l’effetto, deve provvedersi all’annullamento anche del provvedimento sanzionatorio, in quanto assunto sulla base di una disposizione (art. 38 DPR n. 380/01) inapplicabile nella specie, non registrandosi alcun efficace atto di annullamento d’ufficio (di un pregresso titolo edilizio), riferibile alla posizione delle parti appellanti. 12. Alla stregua delle considerazioni svolte, l’appello deve essere accolto ai sensi e nei limiti sopra indicati e, per l’effetto, in riforma della sentenza gravata, devono essere accolti nei predetti limiti il ricorso principalee i motivi aggiunti di primo grado, con annullamento degli atti impugnati dinnanzi al Tar.
La particolarità della controversia giustifica l’integrale compensazione tra le parti delle spese processuali del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sullappello, come in epigrafe proposto, lo accoglie ai sensi e nei limiti di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie nei predetti limiti il ricorso principale e i motivi aggiunti proposti in primo grado e annulla gli atti impugnati in quella sede.
Compensa interamente tra le parti le spese processuali del doppio grado di giudizio.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
  • Fascinated
  • Happy
  • Sad
  • Angry
  • Bored
  • Afraid

Commenti