Gentile dottore, sono salva! Ho lottato contro un tumore al seno per due anni e ne sono uscita, per ora, vincitrice. Con me ha lottato tutta la famiglia e mio marito, medico attento e premuroso, si è dedicato completamente al mio problema. Ora che il peggio è passato, timidamente ho ripreso a cercarlo nell’intimità, senza alcun esito. Mi respinge come compagna, come donna, e a me manca tanto. Ieri proprio sono riuscita a trovare il coraggio di urlargli contro e chiedergli perché. Perché da Natale, da quando abbiamo ritenuto che fosse superata la malattia, dopo che mi ha rassicurato che la ferita non è invasiva, un segno tra ascella e seno che si nasconde bene avendo io una taglia abbondante, perché non posso riavere mio marito? Mi ha urlato contro anche lui, accusandomi di essere un egoista, egocentrica e che, addirittura, sono io il suo cancro. Che amarezza!
Susanna (Casalnuovo)
“L’anima, o caro, si cura con certi incantesimi, e questi incantesimi sono i discorsi belli” Platone. Essere per la morte è quanto affermato da Heidegger, che, attraverso ciò, intendeva farci riflettere sulla possibilità dell’esistenza intesa nella sua autenticità, che è tale solo attraverso la consapevolezza della propria finitudine. Si è portati a prendere in considerazione solo la morte altrui, e non la propria, che in quanto non esperibile è vista come una possibilità e non come processo ineluttabile che, in quanto essere umani, ci appartiene dalla nascita. La sofferenza, l’angoscia legata alla morte sono solo l’anticipazione di essa stessa, e ci proiettano nella mortalità, l’attesa e l’ansia sono solo l’avvisaglia di quello che si prospetta. La patologia fa parte di queste avvisaglie, soprattutto, quando ci piomba addosso nella sua drammaticità, definita da un linguaggio medico che sembra lasciare poco spazio alla speranza, intesa non solo nella sua caratterizzazione spirituale. La patologia crea separazione, da più punti di vista, e volendo usare un linguaggio simbolico, diremmo spaziale: da una parte gli ammalati nella loro sofferenza, che non si apre alla parola, soprattutto a quella dell’altro, che resta vacua nella sua inconsistenza, dall’altra le persone sane, nella loro integrità fisica. Il dolore non ha bisogno di parole, ma di presenza, vicinanza, non di lontananza. Uno spazio vuoto che presentifica la solitudine, l’isolamento della persona non considerata più tale, e per questo ci si allontana, perché la mortalità dell’altro può essere una possibilità anche per se stessi: perciò ci si rifugia nel “si” anonimo, “si muore”, che non ci vede toccati in prima persona, ma resi vulnerabili come all’interno di un ampolla angosciante dalla quale non si può uscire.
Raffaele Virigilio, psicologo e psicoterapeuta
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