L’8 marzo, la giornata internazionale della donna, serve a ricordare sia le conquiste sociali, politiche ed economiche delle donne, sia le discriminazioni e le violenze cui sono state e sono ancora oggetto, in tutte le parti del mondo.
Io vorrei parlare di quanto sia maltrattata la dignità delle donne, di là delle differenze di cultura e costumi al di qua e al di là del mediterraneo.
La storia dell’emancipazione femminile in Italia ha a mio avviso una data simbolica, il 1947, quando le donne hanno votato per la prima volta. Da allora gli impegni e le lotte delle donne hanno fatto si che si modificassero norme obsolete e violente proprie di una cultura patriarcale che negava alle donne l’autodeterminazione sul proprio corpo e sulla propria sessualità: dall’abrogazione dello jus corrigendi, al nuovo diritto di famiglia, all’ abrogazione del “matrimonio riparatore”, fino ad arrivare al 1996, quando finalmente, con le norme contro la violenza sessuale” fu riconosciuto che questo reato non era un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume ma un delitto contro la persona. Accanto a questo, tante battaglie, per il lavoro, per i diritti delle lavoratrici madri ecc. hanno cambiato la vita e il ruolo della donna in Italia e in quasi tutto l’occidente.
Ciò nonostante il fenomeno della violenza sulle donne persiste sia al di qua che di là del mare. Però, mentre in Italia la violenza dell’uomo sulle donne è più spesso dovuta alla difficoltà dell’uomo di adattarsi a una donna che oggi può anche scegliere, al di là del mare è più frequente che le donne stesse la neghino, ritenendo faccia parte della normale dinamica dei rapporti tra uomo e donna.
Del resto in questi paesi, le discriminazioni sono sancite da leggi nazionali, per cui non si prevede che una donna abbia diritto all’eredità, possa avere un proprio conto e accesso diretto alle proprie risorse. Pertanto la loro unica risorsa è il matrimonio.
Come pure, mi sembrano altrettanto lesivi della dignità della donna, sia i costumi in uso al di là del mare, come l’ hijab, egiziano, lo chador, fino al burqa afghano, sia, sulla nostra sponda, i messaggi veicolati dai mass media di una donna-oggetto sessuale. Mi viene quasi da pensare che in certi casi si sia passati dalla segregazione della donna in casa e nei vestiti, alla segregazione in schemi asfissianti di donne-oggetto, magrissime e eternamente giovani, come bambole di carne umana, pronte a soddisfare le fantasie erotiche maschili.
Quello delle mutilazioni genitali femminili è un altro tipo di violenza che come ginecologa mi tocca raramente incrociare ma cui, soprattutto come donna, non posso restare indifferente. Anche questa è una pratica di donne, fatta tra donne e di cui spesso le donne vanno fiere pur di assumere il ruolo più accettato dagli uomini.
Il discorso sulle mutilazioni genitali femminili si porta dietro sempre quello dei matrimoni forzati, e della maternità in età precoce, perché per loro è fondamentale la norma sociale che prevede che le bambine vengano promesse in sposa e sui loro genitali venga posto una sorta di sigillo. Le ragioni di questa pratica pare siano legate a evitare la promiscuità, perché così una ragazza non va in giro con gli uomini prima di sposarsi, si sposa vergine e una volta sposata, ha più probabilità di rimanere fedele.
Questa pratica è strettamente legata agli iniqui rapporti di potere tra uomo e donna per cui il suo corpo è controllato, nella sessualità e capacità riproduttiva, dall’inizio alla fine della sua vita.
Le mutilazioni genitali femminili comprendono l’asportazione totale o parziale degli organi genitali esterni della donna. Esiste una suddivisione delle mutilazioni in 4 grossi tipi che vanno dalla clitoridectomia che è la forma più blanda, dove magari ci sta un piccolo taglio di una parte o di tutta la clitoride, l’escissione in cui oltre la clitoride viene tolta una parte o tutte le piccole labbra della vulva, fino all’infibulazione che oltre al taglio della clitoride e delle piccole labbra, prevede anche il taglio delle grandi labbra che vengono poi fatte aderire e tenute assieme, così che, una volta cicatrizzate, ricoprano completamente l’apertura della vagina, a parte un piccolo orifizio che servirà a far defluire l’urina e il sangue mestruale.
Il quarto tipo di mutilazioni genitali femminili che sta sotto la voce di altre pratiche, rende la questione molto più complessa e controversa, perché in quel calderone sono comprese anche pratiche che coinvolgono noi occidentali. Queste pratiche, impropriamente note come “design della vagina” vanno dal rigonfiamento della clitoride, al tagliare un pezzo di labbra al restringere la vagina per averla come una ragazzina. Queste tecniche, diciamo così, di restyling vanno molto di moda in Nord America e stanno sbarcando anche in Europa.
Credo pertanto sia giusto, quando si lancia lo sguardo di là del mare, che si mettano in discussione anche certe pratiche occidentali sul corpo femminile che, anche se apparentemente frutto di libertà e conquiste, sono comunque segno di pressioni sociali e coartazione in ruoli stereotipati e socialmente prestabiliti.
Ed è forse la pressione sociale il tema più importante, che è ovunque e accomuna tutte le donne al di qua e al di là del mare.
Pertanto, riflettiamo sul fatto che ci sono donne, al di qua del mare, che consapevolmente si sottopongono a certi interventi e ci sono genitori, al di là del mare, che praticano mutilazioni alle loro figlie, per certi versi simili a quelle, non ritenendole una violenza ma una cosa che dà più valore alla bambina.
Perché è proprio così: la mutilazione, il dolore e la sofferenza della bambina viene festeggiata, come un rituale che legittima il passaggio dal genere femminile da punto di vista biologico a un punto di vista sociale.
Da uno studio dell’UNICEF sembra che, la maggioranza delle ragazzine siano mutilate prima dei cinque anni. E il resto dai cinque ai quattordici anni.
L’UNICEF stima che tra i 100 – 140 milioni di ragazze/donne mutilate nel mondo, quasi 100 milioni di mutilazioni avvengono in solo 28 paesi africani mentre gli altri non conoscono questa pratica nemmeno vagamente e la disconoscono quanto noi europei. Altri paesi dove sappiamo che esistono sono: l’Indonesia, lo Yemen, il Pakistan, Iraq e Iran (solo per le popolazioni Kurde), alcune tribù dell’Amazzonia e l’india.
Sappiamo inoltre che esiste anche nei paesi di emigrazione quali Stati Uniti, Canada, Australia, Europa e ovviamente anche l’Italia ma non sappiamo quante bambine hanno subito questa pratica.
La mutilazione causa intenso dolore, provoca shock ed emorragie che possono portare a morte. L’uso di strumenti non sterilizzati, provoca infezioni. Nel caso dell’infibulazione le complicanze legate alla ritenzione di urina portano a infezioni che possono interessare il tratto urinario fino ai reni. Il ristagno del flusso mestruale può provocare infezioni a carico dell’apparato riproduttivo che possono portare a sterilità.
Inoltre aumenta il rischio di problemi durante il parto e anche di morte prenatale.
Inizialmente si pensava che, spiegando alle popolazioni le conseguenze nefaste per la salute, avrebbero smesso di praticarla. Questo però ha portato solo alla medicalizzazione della pratica e pare che l’intervento del medico non riduca il danno, perché i medici, sapendo come intervenire in modo chirurgico, tendono a tagliare meglio e di più.
Oggi in Africa le mutilazioni genitali femminili non sono più un tabù e se ne parla a tutti i livelli nelle società coinvolte, anche se, sappiamo bene che ci sono dei leader che si espongono pubblicamente contro la pratica ma poi, in realtà la condividono.
Oggi la pratica è riconosciuta come una violazione dei diritti umani fondamentali delle bambine e delle donne. Però le comunità, pur essendo consapevoli della palese ingiustizia, della sofferenza, del danno alla salute procurato alle loro figlie e nonostante in tanti paesi oramai sia vietato, continuano a praticarla.
Infatti, una ragazza non escissa non troverà marito e non avrà la possibilità di sopravvivere, non solo da un punto di vista economico ma anche socialmente. Pertanto il danno sociale percepito nel non praticarla, vergogna e esclusione sociale, è più forte delle conseguenze sanitarie e legali. La bambina non escissa viene isolata e denigrata. Dire “quella ha il clitoride” equivale a un insulto.
Per fortuna adesso anche l’Europa comincia a occuparsi di questi temi, visto che le mutilazioni si praticano anche da noi sulle migranti. Infatti ci sono donne che sono combattute tra il desiderio di fare integrare le figlie e quello di non tagliare quelle radici che le farebbero accettare da dove si viene, semmai decidessero di ritornare.
Anche la Convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa, entrata in vigore nell’agosto scorso, per la prevenzione e la lotta alla violenza contro le donne e la violenza domestica, ha un articolo specifico contro le mutilazioni, che non si focalizza solo sulla criminalizzazione ma crea obblighi per gli stati a partire dalla prevenzione fino alla criminalizzazione. Inoltre bisogna dire chiaramente che non è vero che si tratta di una pratica mussulmana. Infatti marocchine, algerine e tunisine non hanno neanche idea cosa sia e l’università del Cairo, una di quelle più autorevoli in materia di diritto islamico, ha ufficializzato che non è una pratica musulmana.
Ritengo pertanto che, piuttosto che stare a guardare di là del mare, come a “cose dell’altro mondo”, credo sia più utile restituire dignità alle donne trovando il modo per limitare, nel rispetto delle diverse società e culture, l’influenza delle pressioni sociali che si traducono in modalità di controllo di una parte di umanità sull’altra.
Maria Rossetti, sessuologa e ginecologa
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