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Gentile dottore, dopo alcuni anni di separazione da mia moglie, durante i quali ho continuato con piacere e dedizione a prendermi cura dei miei figlioli, oggi di 13 e 15 anni, ho ricucito il rapporto con la compagna della mia vita e stiamo ricostruendo il nostro rapporto. Da quando sono rientrato nella casa matrimoniale però tutti, familiari conoscenti e pseudoamici, non fanno altro che tentare di rompere la nostra armonia. I metodi sono tra i più biechi: diffamazione sul mio conto, sulle mie presunte amanti, su vizi di varia natura costantemente coltivati. Addirittura mi sono stati attribuiti debiti di gioco, assolutamente inesistenti. Quelli che credevo amici insinuano confidenzialmente il mantenimento di una relazione da poco terminata, il cui fallimento è stata forse la molla che mi ha indotto a riconsiderare il mio matrimonio. L’invidia dunque e la maldicenza delle persone rischia di rovinare la mia vita. Mi chiedo perché esista tanta cattiveria e cosa muove la malignità nel genere umano.
Simone (Frattamaggiore)
“Se il perdono prende senso, trova la sua possibilità solo laddove è chiamato a fare l’impossibile e a perdonare l’imperdonabile” (Derrida). Il perdono sta consentendo a questo Amore (?) di esistere ancora, ma per far sì che ciò sia reale, bisogna essere liberi, e si è tali solo se vengono prima riconosciute e poi abbattute le proprie barriere interne, che possono essere sinonimo di un vissuto personale non ancora elaborato. E’ nell’essere liberi che non si avvertirà più il peso del giudizio degli altri, che viene formulato sulla base di pregiudizi noti all’interno di un contesto culturale poco gradevole. Chi sono gli altri per poter giudicare? E’ nel nome del giudizio che ancora oggi vengono lapidate, anche simbolicamente, persone etichettate in un certo modo. Anche se abbiamo percorso tanta strada si parla ancora di adulterio, di onorabilità, di morale, lasciando tanto spazio alla fantasia alimentata da false credenze, da un moralismo bieco e vuoto di contenuti. Se infatti la vita di relazione è alimentata da un “si” impersonale, nel senso che “si” è orientati alle decisioni degli altri in modo eccessivamente conformista, di conseguenza si resta allineati più alle aspettative altrui che ai propri desideri. Questo porta inevitabilmente a vivere, inibendo la propria espressività, la propria spontaneità e la propria libertà di pensiero, rimanendo così vittime di quei pregiudizi che minano le scelte di vita che l’esistenza prospetta, e che nello stesso momento ci fanno percepire l’altro come persecutore e come giudice di un giudizio espresso in maniera sommaria.
Dott. Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta