L’angolo dello psicologo. “Ho sposato un alcolista, pantofolaio e traditore”

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Caro dottore, le scrivo con la profonda amarezza che caratterizza questo ultimo periodo della mia vita,  in cui la maturità e i fallimenti mi spingono a credere che il futuro possa riservarmi solo solitudine e silenzio. Sono una donna di 60 anni che ha compiuto la difficile scelta di lasciare un marito iroso e bevitore (a suo dire moderatamente, ma per me sostanzialmente alcolista), che mi ha sempre tradito. Dopo la pensione, quest’uomo, che è solo il padre dei miei figli, di 20 e 22 anni, è diventato un pantofolaio annoiato e inerte, occupante a tempo pieno il divano Liberty che campeggia nel nostro elegante salone. La cosa davvero incredibile è che lui non vuole andare via, e io non sono certo disposta a lasciare una casa in un quartiere residenziale e confortevole, a Napoli, comprata a suo tempo con il cospicuo aiuto della mia famiglia e poi pagata con un mutuo. Grazie anche alla mia assennatezza, io che sono sempre stata una oculata casalinga, ho da parte una piccola cifra, ma non posso certo mantenermi, nè posso sottrarmi alla dipendenza economica di mio marito. Speravo che anche lui volesse porre fine a questo matrimonio bianco, e volesse lasciarmi tranquilla, dopo aver sopportato tutte le amanti di cui ho saputo sempre e tante altre cattiverie. I miei figli non vogliono che il padre vada via e forse sono solo preoccupati che cambi il loro tenore di vita. Io finirò per aspettare la morte in silenzio, perché davvero non vedo possibilità. Tutti credono di essere dalla parte della ragione e ormai io ho tolto la parola a tutti. Lei parla sempre di comunicazione, ma come si fa a comunicare con chi non vuol sentire?
Paola (Fuorigrotta)
Sentire non è ascoltare! L’ascolto è altro: è sintonia emotiva, empatia, è un riconoscersi continuo nelle emozioni dell’altro, di colui cui viene fatto dono della nostra parola. Senza ascolto non può esserci comunicazione, che nella sua etimologia, prossima alla parola comunione, ha a che fare con la condivisione di esperienze significative, anche al fine di evitare situazione di incomprensione tra le persone. Laddove non si comunica non può esserci rapporto di reciprocità, né si può parlare di rapporto a contenuto emotivo, perché si vive una dimensione puramente funzionale. In questi contesti prende forma la dipendenza affettiva, che può addirittura configurarsi come una vera e propria psicopatologia, quando la persona non è in grado di prendere decisioni da sola, ha sempre bisogno di rassicurazioni e non è in grado di “funzionare” bene senza qualcun altro che si prende cura di lei ( Gabbard, 1995).
La persona dipendente punto di vista affettivo è portata a negare se stessa, per il benessere altrui, e non di rado l’amore verso l’altro è una sofferenza che può avere risvolti anche sulla salute. Spesso il dipendente è preda di un manipolatore affettivo, e la modalità di relazionare ha un’origine più antica, che va ricercata nella sua storia personale; da cui si potrà evincere cosa rende la relazione con l’altro indispensabile per la propria esistenza. Un’esistenza che fa del malessere il proprio alimento, un alimento tossico, funzionale ad alimentare solo la fame dei propri fantasmi. In effetti l’unica grande paura che si cela dietro a una relazione del genere è quella relativa alla rottura del rapporto con l’altro, perché non si riesce a vedere oltre, nella propria autonomia, nella propria libertà, che si possono raggiungere solo abbattendo vincoli interiori. Non si riesce ad andare oltre l’idea di questo rapporto, fino a quando non si prenderà coscienza che quell’incontro con una persona che avrebbe dovuto dar “forma” alla vita, si rivela poi nel tempo con gli aspetti “informi” che accompagnano la disillusione del sogno che svanisce.
Dott. Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta
© Copyright Redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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