Lo psicologo risponde ai lettori. “La violenza sulle donne e la cultura da cambiare”

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Cari lettori, ancora i fatti di cronaca e molte vostre lettere mi impongono riflessioni approfondite su un tema scottante, la violenza sulle donne.

Perché? Perché l’ha fatto?…si chiedeva il padre riferendosi a colui che gli aveva portato via la figlia, uccidendola. Come se cercasse una ragione, una risposta a un dolore che non si placa, che non retrocede, che non è in grado di dare una risposta plausibile a quanto accaduto, e non sa darsi pace. Perché, dunque? Sono i perché che spesso siamo costretti a formulare davanti alla violenza, che ci viene propinata quotidianamente nelle sue infinite modalità, e che trova tra i suoi bersagli preferiti le persone più deboli, e le donne. Ormai è chiaro che non si può pensare di affrontare il problema solo con l’inasprimento delle pene, poiché il fenomeno appare, in modo lampante, di chiara origine culturale ( e con ciò non lo si vuole giustificare, naturalmente, né sminuirne la gravità). Di dove vengono la paura delle donne, l’odio che spinge uomini sempre più insicuri a perseguitarle e ucciderle? Una cultura che nasce con l’uomo e che la storia non ha fatto altro che consolidare nel tempo. La nostra storia, quella dei nostri avi, si è radicata in una concezione di tipo patriarcale che pone l’uomo al centro di tutto e relega la donna in una dimensione marginale, concependola come oggetto da usare e da possedere.

L’amore, come abbiamo avuto modo più volte di dire, non è possesso, ma viaggia attraverso la legge della parola, e là dove questa non c’è, si lascia spazio alla violenza, al maltrattamento, alla sopraffazione, che possono esprimersi nella molestia, nella sevizia, in un atteggiamento sordidamente persecutorio. Spesso le donne vittime non riescono a denunciare ciò che subiscono: per vergogna, per impedimenti di ordine psicologico, troppo spesso scelgono il silenzio. Spesso nelle cronache così leggiamo di sevizie, sfregi, aggressioni che a volte terminano nell’uccisione della donna. E si sentono a volte frasi aberranti: l’ho uccisa perché non volevo perderla, l’amavo troppo!

Che cosa è questa se non l’affermazione di una cultura misogina, che cha ha fatto della donna il simbolo della paura, della fragilità, della povertà psichica che annida in una visione maschilista della donna, una visione che non ha interiorizzato il valore della differenza, misconoscendo la femminilità intesa anche come parte di sé? Un pensiero votato all’affermazione del proprio potere, bandendo tutte le forme di debolezza che si osservano anche nei comportamenti dei più piccoli: non si piange, non si mostra debolezza, bisogna essere duri e forti.

La differenza è invece una risorsa, una ricchezza, non qualcosa che va discriminato. Come potremmo avere accesso all’altro, inteso nella sua alterità, nella sua modalità esistenziale, nella sua possibilità, nella sua libertà, se non credessimo alla donna come libertà e a noi stessi come libertà, come libertà di amare e di comprendere, di rispettare e di stimare. Un retaggio di civilizzazione inteso in modo sbagliato ci conduce a mettere duramente in discussione il concetto di virilità.

E dunque per arginare, risolvere, annientare il fenomeno della violenza sulle donne, si dovrà intraprendere una vera e propria battaglia culturale, ad iniziare dalla più tenera età, in famiglia, a scuola, nelle agenzie educative a vari livelli, nelle palestre come negli oratori; si dovrà lottare per la trasmissione di modelli sani, che affermino il rispetto dell’individuo e della donna, che non dovrebbe mai essere trascurato. Il bambino che cresce in un contesto fatto di soprusi, dovrà apprendere un nuovo codice linguistico, recuperare il linguaggio delle emozioni. E’ alle emozioni che ci si deve indirizzare per uscire dall’analfabetismo emotivo, che sembra governare la nostra epoca. Andare oltre la tecnologia e la comunicazione virtuale, per riscoprire la parola e parlare di sentimenti… recuperare, anzi ricreare una grammatica del linguaggio d’amore, dell’anima, della bellezza, della vita stessa, che nella sua genesi nasce come rispetto dell’altro.

Dottor Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta

 

© Copyright Redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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