Questa settimana intendiamo dare una risposta a più lettere pervenute e aventi come tema un unico argomento, che ha investito la coscienza emotiva di tanti di noi: il suicidio. Non nella sua spiegazione, così come giunge attraverso la domanda, ma nella sua comprensione, perché non c’è nulla che si possa spiegare in questo gesto così estremo.
Una visione fenomenologica del suicidio, ci porta a comprenderlo attraverso le emozioni, la dimensione temporale della persona, la sua incapacità a proiettarsi nel futuro, il suo vissuto, la incapacità a contattare il dolore; uno sguardo quindi voltato alla dimensione esistenziale dell’individuo, la cui scelta finale lo ha portato a considerare la vita non più degna di essere vissuta.
Non è possibile spiegare il suicidio; quante volte infatti ci siamo imbattuti in momenti di riflessione che ci rimandavano all’immagine della persona che conoscevamo direttamente o attraverso la sua notorietà, rimanendo attoniti alla notizia della sua decisione? Nulla faceva presagire quello che poi si sarebbe verificato, nessun segno manifesto poteva far presumere quello che si sarebbe avverato.
Parliamo indifferentemente di persone, senza fare distinzione tra età, ceto, professione, sesso. La persona quindi nel suo essere e non attraverso i suoi aspetti dimensionali, che potrebbero fuorviarci. Non si tratta di considerare il suicidio tra gli aspetti psicopatologici della persona, in quanto non sempre il suicida è una persona depressa.
Quello che stupisce quindi è che si tratta di persone che apparentemente non avrebbero motivo per desiderare la morte: lavoro, famiglia, età. Quello che ci sentiamo di dire in virtù di tanti colloqui terapeutici, è che il suicidio non è mai una decisione improvvisa, ma il punto di arrivo di lunghi e tortuosi ragionamenti. Freud pensava al suicidio come ad un omicidio mancato, che viene condotto contro una figura introiettata, un tempo amata, ora odiata, e che viene uccisa nella propria immaginazione, mettendo in atto questo gesto verso se stessi in tutta la propria ostilità provata verso l’altro.
Dallo schema freudiana si evince un vantaggio primario che il suicida ricaverebbe, sia rispetto all’espiazione delle colpe, e sia rispetto alla punizione dell’oggetto d’amore un tempo interiorizzato, intendendo per esso persone per lui significative. L’amore che si interseca con la morte, nelle sue forme anche estreme, come sa essere quest’atto, l’amore nel segno della mancanza quindi, del suo bisogno, e che viene fuori come mancanza di cura per se stessi e che si presenta come l’unica vera cura dell’esistenza. L’amore che da senso alla vita, quello che conosciamo venendo al mondo, oltre l’angoscia spaesante della gettatezza (Heidegger), quello in grado di accogliere il grido della nascita.
Dottor Raffaele Virgilio
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