Caro dottore, le racconto la mia storia. Peccato originale, non amare. Sono una donna di 38 anni, autonoma e indipendente, grazie alla mia professione di avvocato e al mio carattere forte. Ho avuto un figlio che oggi ha 8 anni, da un uomo sposato che non ha mai saputo di essere padre. La mia storia affettiva, costellata di delusioni, ha un comun denominatore, il fatto cioè che non mi sono mai davvero innamorata tanto da credere che l’uomo accanto a me in quel momento potesse essere il mio compagno di vita, per sempre. Ho in effetti un’opinione piuttosto negativa del genere maschile e non credo che gli uomini che finora mi hanno accostato fossero affidabili e sinceri. Quelli più tradizionalisti avevano caratteri difficili, quelli “bastardi”, piuttosto superficiali, si sono esclusi da soli dal mio orizzonte affettivo. Così mi rendo conto, pur non essendo molto avanti negli anni, di non aver mai amato veramente, di aver cercato l’amore nei posti sbagliati, di aver creduto in un amore ideale che, come il cavallo di Platone, è un modello di perfezione irraggiungibile. Scelgo oggi di rimanere sola, l’unica persona in cui posso credere è me stessa. Con amarezza, ma è così.
Barbara (Melito)
Risposta
Possiamo considerare l’amore tra le prime, se non la prima funzione vitale? Gli specialisti si sono soffermati molto sull’importanza dell’amore ai fini della sopravvivenza della specie stessa e sull’importanza delle cure ricevute sin dai primissimi momenti di vita, fondamentali per superare l’angoscia derivante dall’impatto con un mondo nuovo, nel quale si è “gettati” senza scelta. Si viene al mondo per esssere amati e purtroppo questo non sempre accade. La privazione di cure primarie è una mancanza che caratterizzerà tutta la vita di un bimbo. Lo psicanalista Bowlby con la sua “teoria dell’attaccamento” ci ricorda che il contatto con la madre è a base dello sviluppo della vita affettiva ed emotiva futura. Così come impariamo a camminare e parlare, è possibile imparare ad amare: ciò è concepibile solo attraverso l’esperienza dell’amore, che ha bisogno del contesto giusto, ove siano presenti modelli ed esempi da interiorizzare. La capacità di amare per Freud implica il superamento del narcisismo (primario), quello che investe il bimbo appena nato e che lo rende “onnipotente” in un mondo che sembra organizzato e incentrato su di lui. Il mito di Narciso, al di là della leggenda, approda a ciò che realmente esso rappresenta: l’amore tragico e distruttivo di chi si lega all’immagine di sé. L’amore, la capacità empatica, l’investimento affettivo sull’altro ha scarsa importanza per il narcisita, che fondamentalmente è fragile, portato a compensare la sua fragilità attraverso il raggiungimento di altri obiettivi. Gli obiettivi cioè che gli danno lustro, fascino, visibilità, e la ricerca dell’amore vissuto in modo funzionale, dove l’altro è uno strumento nelle proprie mani. Paura ad amare, fuga, aggressività, coartazione di legami interindividuali, la recita di ruoli di facciata, spesso tendono ad allontanare l’interlocutore. Possiamo affermare che tutti i problemi umani sono delle varianti che hanno come matrice un unico tema: l’incapacità appresa ad amare!
Amare è darsi nel proprio intimo, senza maschere, mostrando le proprie miserie, le proprie debolezze. Ha coraggio non chi reprime il desiderio e fugge, ma chi accettando i propri limiti si lascia prendere, si lascia vedere, per poter essere riconosciuto nella sua individualità, per lasciare che l’altro approdi in quella parte ignota di sé e, forse, aiuti a rivelarla.
Dottor Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta
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