Sei mesi dopo la conclusione del processo Pip arrivano anche le motivazioni della sentenza. Il processo si era chiuso con la condanna di Oliviero Giannella e Antonio Di Guida, l’assoluzione di Antonio Visconti e Salvatore Polverino, l’assoluzione dal concorso esterno per Aniello e Raffaele Cesaro e la condanna del solo Aniello per falso ideologico e materiale aggravato dalla finalità mafiosa. Ecco cosa scrivono i giudici di Napoli nord.
Fratelli Cesaro.
“I fratelli Aniello e Raffaele Cesaro ebbero certamente rapporti con gli ambienti dell’imprenditoria camorristica maranese e con i tecnici del territorio di riferimento del clan Polverino, ma non vi è prova che l’interferenza del sodalizio criminale li abbia agevolati nell’aggiudicazione dell’appalto per la realizzazione del Pip, per le procedure di esproprio dei terreni e per la vendita dei capannoni”. E’ questa, in sintesi, la motivazione principale con la quale i giudici di Napoli nord hanno assolto – dall’accusa di concorso esterno – i due imprenditori di Sant’Antimo, a lungo imputati in un processo andato in archivio lo scorso settembre. Le motivazioni, contenute in oltre 1000 pagine, sono state depositate ieri. E’ provato, invece, l’aggravante mafiosa (ex articolo 7), per il solo Aniello, in relazione alla falsificazione di un atto di collaudo del complesso industriale. Tale falsificazione, di cui fu perfettamente “consapevole l’imputato” – come evidenziato dal collegio di Napoli nord – ha inequivocabilmente arrecato un vantaggio anche ai personaggi ritenuti contigui al sodalizio criminale egemone a Marano. I giudici di Napoli nord, nell’illustrare le motivazioni alla base della sentenza, fanno più volte riferimento ai rapporti intercorsi tra i due imprenditori, che nel 2004 si aggiudicarono la procedura bandita dal Comune di Marano, e il palazzinaro Angelo Simeoli, meglio noto come “Bastone”, ritenuto dagli inquirenti imprenditore di punta dei Polverino. Rapporti che, come evidenziato nelle motivazioni della sentenza, si sarebbero sviluppati anche grazie alla nomina di alcuni tecnici, come il defunto agronomo Paolo Di Maro (mai indagato, ndr), in sostanza imposto o suggerito da Simeoli ai Cesaro.
Le indagini dei carabinieri del Ros, coordinate dal pm Maria Di Mauro e corroborate dalle dichiarazioni di alcuni collaboratori di giustizia, tra cui Roberto Perrone e Biagio Di Lanno, hanno “effettivamente consentito di appurare l’esistenza di taluni profili di anomalia nella gestione delle procedure di affidamento del Pip, rivelatisi talvolta vantaggiosi per i Cesaro, ma l’istruttoria non ha tuttavia fornito che le prove di favoritismi verso i Cesaro – attuate dal Comune – fossero originate dalle interferenze dei Polverino”.
Comune di Marano.
E ancora: “Non è sufficiente la tesi della pubblica accusa che, sul tema, ha puntato sull’assioma che l’ente fosse completamente asservito alla fazione criminale. Il collegio ritiene che tale prospettazione richieda il “massimo del rigore valutativo”. E’ provato, come evidenziato anche da testimoni ritenuti credibili, che i Cesaro pagarono (una tangente) all’ex sindaco Mauro Bertini (imputato in un processo nato a margine di questa inchiesta) e che ottennero vantaggi anche grazie alle relazioni politiche intessute con un altro sindaco, Salvatore Perrotta, successore di Bertini.
I giudici hanno inoltre evidenziato, sulla scorta di quanto emerso in dibattimento, che una sola ditta, quella dei Cesaro, partecipò al bando di gara. Non vi è sul punto, contrariamente a quanto sostenuto da un pentito, alcuna certezza di una manovra una posta in essere da Giuseppe Polverino, il capoclan, per escludere una potenziale concorrente. Del famoso “fuglietiello” che il “Barone” avrebbe fatto sparire non vi è traccia. Anche se è confermato ed è agli atti che l’ex dirigente del Comune, Armando Santelia, “falsificò un atto apponendo la sua firma in luogo di quella di una dipendente comunale addetta all’ufficio protocollo.
Giannella e Di Guida.
Elementi di prova “chiari” sono stati riscontrati invece per Antonio Di Guida e Oliviero Giannella, condannati entrambi per concorso esterno. Le valutazioni del collegio.
“Giannella è il tecnico di fiducia della famiglia Polverino e ha approfittato di tale condizione per curare interessi e ottenere vantaggi personali”. Di Guida, noto politico del territorio e imprenditore edile, è stato condannato essenzialmente non per la questione Pip, ma per la realizzazione di un affare immobiliare, il Parco dei Gerani ai Colli Aminei (239 unità abitative) dove – secondo i giudici – ha goduto dell’appoggio del clan.
Per Di Guida i giudici rilevano: “Ebbe sicuramente rapporti di contiguità con Angelo Simeoli, il quale in uno sfogo gli aveva confessato, in relazione alla vicenda della Masseria del Galeota, di aver pagato l’ex sindaco Mauro Bertini con assegni di cui gli aveva mostrato le fotocopie”. Ma è la questione dei Colli Aminei centrale per Di Guida, realizzata in collaborazione con Cesare Basile, imprenditore di Giugliano ucciso nel 2014. In quell’occasione, come evidenziato nelle motivazioni, “Di Guida ottenne uno sconto sulla tangente da pagare al clan Lo Russo in virtù dell’interesse nella vicenda anche di Peppe Polverino”. “Il Di Guida – scrivono i magistrati di Napoli nord – non è un affiliato al clan, ma un imprenditore che in taluni specifici affari ha con lo stesso concluso accordi, traendone in qualche modo dei vantaggi. Tale circostanza, come confermato anche dal pentito Perrone, non significa certo potersi sottrarre alle regole del sodalizio criminale”.
Sulla vicenda del parco ai Colli Aminei hanno riferito diversi collaboratori di giustizia. “Per una valutazione complessiva della figura di Di Guida – è scritto ancora nelle motivazioni – non può essere trascurato ciò che è emerso da altre vicende”. Nello specifico si fa riferimento alla vicenda Miramar (appartamento nelle disponibilità dell’affiliato dei Polverino Biagio Cante che restava però restava formalmente intestato alla società) e del parco del Lago, operazione realizzata dalla Edil sud di Di Guida e altri soci e dalla Immobiliare Flaure di Angelo Simeoli. Due operazioni, queste ultime, dove non è stata accertato l’accordo con il clan, ma che sarebbero sintomatiche della vicinanza di Di Guida a certi ambienti. Emergono inoltre contraddizioni circa il suo rapporto con il noto contrabbandiere Rocco Cafiero, che da quanto emerso in dibattimento si sarebbero protratti fino al 2016.
Giannella. “Se da un lato, alla luce delle ricostruzioni istruttorie, potrebbe finanche ritenersi che Giannella sia un affiliato al clan, a fronte di una costante disponibilità perpetratasi nel corso degli anni, deve tuttavia rilevarsi che non si ha prova certa dell’affectio societatis, essendo al contrario verosimile che l’imputato si sia limitato ad approfittare dell’appoggio del clan senza che facesse parte della struttura organizzativa, per perseguire suoi interessi personali offrendo in cambio disponibilità e competenze. Il Giannella senz’altro concorre a determinare illecita crescita economica al clan Polverino, mettendo a disposizione la sua professionalità e così garantendo introiti derivanti dagli investimenti nel settore immobiliare”. Ciò emerge non solo dai racconti dei pentiti ma anche dalle numerose intercettazioni nel suo ufficio e i colloqui con Salvatore Polverino (assolto nel processo), figlio di Antonio, con il defunto agronomo Di Maro (non indagato) e con Raffaele Orlando (non indagato), figlio di Armando, noto come ‘o Tamarro.
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