E’ stata, quella di ieri, un’altra udienza fiume ad Aversa. Il processo sull’area Pip di Marano è ormai da tempo entrato nel vivo e ieri, per la seconda volta nell’arco di una ventina di giorni, sul banco dei testimoni è salito il tenente colonnello Salvatore Sferlazza, a capo dell’unità dei carabinieri del Ros che hanno portato avanti le indagini.
In aula, per la prima volta dall’inizio del processo, erano presenti Salvatore Polverino (figlio di (Totonno Polverino) e Antonio Visconti, entrambi cugini ed entrambi imputati.
In aula anche i fratelli Raffaele e Aniello Cesaro, entrambi ai domiciliari fuori regione.
Sferlazza ha risposto alle domande degli avvocati difensori degli imputati. Le prime sono state formulate dai legali di Polverino e Visconti. L’avvocato Esposito ha posto più volte l’accento sulla natura delle investigazioni e delle verifiche, anche di carattere patrimoniale poste in essere dal Ros. Sferlazza ha ribadito che non ci furono verifiche patrimoniali e che i reati ipotizzati nei confronti di Polverino e Visconti sono essenzialmente frutto delle intercettazioni, ambientali e telefoniche, che vedono interloquire l’ingegnere Oliviero Giannella (imputato ai domiciliari) e lo stesso “Toratto”. Conversazione successive alle verifiche tecniche effettuate dal Comune di Marano all’interno del Pip e che avallerebbero – secondo Sferlazza – l’ipotesi che il capannone oggetto delle indagini era in realtà dei Polverino e non di Visconti. La pubblica accusa, ieri rappresentata in aula dal magistrato Giuseppe Visone, ritiene che il capannone (Il Vostro fornaio) e un altro, nelle disponibilità di una sorella del boss Giuseppe Polverino, siano in realtà beni riconducibili ai vertici del clan e quindi ottenuti o acquistati con illecite modalità. Ricostruzione dei fatti fortemente contestata dai difensori degli imputati, che hanno manifestato più di qualche perplessità non solo sulla qualità delle investigazioni, in particolare sui movimenti del veicolo dell’allora indagato Polverino Salvatore (“Abita a 10 metri dal capannone”, ha evidenziato l’avvocato Esposito), ma anche sulle dichiarazioni rese in più circostanze dal pentito Roberto Perrone.
L’udienza è proseguita con le domande dell’avvocato Vincenzo Maiello, difensore dei Cesaro. Una sequela di domande. Maiello ha chiesto a Sferlazza di soffermarsi sull’avvio dell’indagine, su quale fosse stata la notizia di reato che ha indotto gli inquirenti ad avviare le investigazioni e se, inizialmente, tra le ipotesi di reato paventate vi fosse anche l’aggravante mafiosa. Il colonnello del Ros ha ribadito che l’indagine fu avviata in base a tre elementi: le notizie giunte sul fronte politico, in particolare gli screzi tra la compagine politica guidata da Antonio Di Guida (imputato in carcere) e l’ex sindaco Liccardo. E ancora: una nota informativa sul contesto criminale locale, alcune note stampa di gruppi consiliare maranesi a quel tempo tra i banchi della minoranza, le dichiarazioni dei pentiti Perrone e Di Lanno.
Nello specifico, poi, Maiello ha chiesto Sferlazza come – secondo gli inquirenti – si sarebbe strutturato l’accordo di natura mafiosa tra i Cesaro e i Polverino. Sferlazza: “Si sono prestati alla logica del clan. Era un accordo generale. I Polverino non potevano gestire direttamente il Pip e così si accordarono con i Cesaro. Tutto rientrava nell’ambito di un accordo generale che contemplava più cose: il movimento terra, affidato agli Sciccone, o l’utilizzo del cemento preso dalla Cafa 90, società gestita dagli uomini dei Polverino, la questione degli espropri curata da Angelo Simeoli, imprenditore del clan”.
Maiello ha evidenziato alcuni aspetti, per le difese decisamente contraddittori: “Perrone fa riferimento, in un passaggio di una sua deposizione, alla cifra di un milione di euro che i Cesaro avrebbero dovuto versare a Giuseppe Polverino. Somma così suddivisa: 400 mila euro a titolo di restituzione di un prestito iniziale e 600 mila come prima tranche di una tangente che gli imprenditori di Sant’Antimo avrebbero dovuto versare al clan”.
Le domande del legale si sono spostate sul versante gara e anche in questo caso l’avvocato Maiello ha tentato di far emergere alcune contraddizioni. Il riferimento è alla società Giustino, azienda di livello nazionale che ha risposto alla manifestazione di interesse indetta dal Comune di Marano “ma che non ha mai partecipato, per mancanza di un requisito – come ribadito dallo stesso militare dell’Arma – alla gara vera e propria”.
Il ragionamento delle difese è il seguente: Perchè Santelia, ex dirigente del settore tecnico comunale, avrebbe dovuto falsificare un atto di gara (emerge dagli atti di indagine, ndr) se a partecipare alla gara fu solo l’azienda dei Cesaro? Sferlazza ha replicato “che la gara è stata ad ogni modo controllata dal clan”.
E ancora, l’avvocato Maiello ha insistito non poco sul ruolo avuto dall’ex sindaco di Marano Mauro Bertini, sulla natura dei rapporti che intercorrevano tra lui e il dirigente Santelia, sulla natura dei rapporti tra Biagio Iacolare e l’ex dirigente comunale Giovanni Micillo e quale è stato il contributo di Bertini alle indagini.
Sferlazza: “Il Pip nasce con Bertini e cambia rotta con lui, passando da progetto interamente pubblico a project financing e fu lui a nominare Nico Santoro. Bertini ci indicò i nomi degli imprenditori Pianese e Trinchillo, assegnatari di capannoni che erano entrati in conflitto con i Cesaro. Lo ascoltammo un paio di volte in procura e mi fece capire che era a disposizione per un ulteriore contributo informativo. Lo incontrai, successivamente, altre 4-5 volte”. Sferlazza ha infine ricordato la preoccupazione di Santelia, intercettato dopo la convocazione in Procura. “Parlava al telefono con un amico e si preoccupava di un’eventuale imputazione per reati associativi”.
L’udienza è stata rinviata a maggio. In quell’occasione saranno i difensori di Antonio Di Guida a rivolgere le domande al tenente colonnello del reparto del Ros di Napoli.
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