Convento di Santa Maria degli Angeli, gli affreschi della sagrestia potrebbero far retrodatare la fondazione della struttura religiosa

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Gli affreschi presenti nel refettorio del convento di S. Maria degli Angeli a Marano di Napoli, riportati casualmente alla luce da P. Ascione diversi anni fa, sono attualmente attribuiti da alcuni allo stesso autore degli affreschi settecenteschi presenti nell’attiguo chiostro, da poco restaurato, e cioè ad Angelo Mozzillo (1756 – 1807).

Tuttavia non pochi dubbi insorgono circa tale datazione, in particolare per L’Ultima Cena, che sembra invece risalire almeno alla fine del ‘500, a causa di alcuni particolari riguardanti la tecnica e la scena rappresentata:

  1. la postura, la corpulenza ed il drappeggio dei personaggi, propri della scuola michelangiolesca.
  2. la tavola circolare, invece che rettangolare, che si trova frequentemente raffigurata dal periodo giottesco, fino a rari casi cinquecenteschi;
  3. la circostanza di essere stati per anni nascosti perché imbiancati da una mano di calce che però non ha interessato gli affreschi del chiostro.

A tal proposito il Barleri[1] riporta una nota del 4 ottobre 1935 in cui si afferma che “Il P. Cherubino D’Annolfo con offerte avute a questo scopo, curò un restauro radicale dell’ambiente: viene ripulito il refettorio… fu risarcita la soffitta e dipinta a nuovo, le pareti furono dipinte a colla con colore verde pisello, contornate in alto con una fascia di distacco…”. Nessun riferimento per gli affreschi in questione, evidentemente già ricoperti dalla calce data molto tempo prima.

Sino ad oggi lo studio del predetto affresco non è andato oltre, appiattito e condizionato dalla convinzione, diffusa ma non verificata, che il convento e la chiesa siano stati costruiti nel 1609 e quindi anche gli affreschi del refettorio “devono essere necessariamente coevi o postumi”.

In realtà c’è da dire che la stessa data di costruzione, 1609, scaturisce da un’errata lettura proprio degli atti citati per dimostrarla.

  1. Barleri[2] pubblica due scritture notarili con cui il nobile napoletano Scipione Dentice, fu Marco Antonio, fa delle donazioni a favore dei Frati Minori di Osservanza, rappresentati da Fra Gervasio da Perugia.

Col primo atto, stipulato addì 8 marzo 1609[3], dona un “luogo in più differenti parti inferiori e superiori, cortile, cisterna, giardino, terra ed altre comodità, consistente, posto e situato nel Casale di Marano epproprio dove si dice all’Olmo…”.

Dunque dona un suo fabbricato, a più piani, con cisterna, cortile e giardino “affinché si costruisca una Chiesa sotto il titolo di S. Maria degli Angeli”.

Più avanti si legge: “Per prima cosa nel detto Monastero, anche non essendo completato, si celebrino nella cappella da farsi due messe la settimana…“.

Sembra di poter dedurre che il fabbricato donato debba essere trasformato in monastero e che nella cappella, già esistente, come in uso nelle masserie dell’epoca, vadano subito celebrate le messe richieste.

La lettura del secondo atto di donazione, stipulato il 17 Maggio dello stesso anno, scioglie ogni dubbio.

Infatti, è presente il citato Fra Gervasio ma, questa volta, compare “per parte della venerabile Chiesa di Santa Maria degli Angeli, sita in detto casale di Marano“.

Scipione Dentice dunque dona a costui “un moggio (di terra) all’incirca e posto in detto casale, accanto ai beni di detta Chiesa dalla parte d’oriente, nel tempo passato donato dallo stesso Scipione alla stessa Chiesa, come appare chiaro da pubblico atto rogato di mia mano predetto notaio, sotto la data dell’8 marzo del presente anno, dove c’è la chiesa predetta (segue descrizione confini)“.

Più avanti si legge: “Scipione (dichiara) di aver deliberato e disposto in conformità del suo intento, per amore, affetto e devozione che dice di portare verso la predetta Chiesa e la sua religione, di voler donare, in vista dell’allargamento e per comodo della detta chiesa e del suo convento“.

Quindi una chiesa già esisteva, sia pure sotto forma di Cappella di campagna, e questa andava allargata per accogliere più fedeli oltre che per atto di devozione e prestigio del donatore.

D’altra parte verifichiamo subito che anche la sola opera di allargamento non può essere stata realizzata nelle more del perfezionamento dell’atto, ossia, tra il giorno 8 marzo e il 17 di maggio, sia perché non ci sarebbero stati i tempi tecnici sia perché i beni non erano ancora stati definitivamente trasferiti ai francescani.

Osserviamo che nell’attuale Chiesa, alle spalle dell’altare maggiore, è presente una Cappella dismessa, denominata impropriamente sagrestia, in quanto è presente un altare stilisticamente somigliante a quello cinquecentesco esistente nella non lontana Chiesa dello Spirito Santo.

Anche le decorazioni residue esistenti richiamano quelle proprie di una cappella gentilizia rurale, la cui struttura e la posizione la denotano come il nucleo originario a cui si è addossata nel 1609 la nuova chiesa, quella voluta dai Dentice.

La vista in pianta[4] della Chiesa attuale rende più evidente la dicotomia architettonica esistente tra il corpo di fabbrica preesistente e la maestosità della parte aggiunta.

Quest’ultima sembra confliggere con i canoni prescritti per l’architettura francescana del tempo.

Lo stesso chiostro ed il convento presentano almeno due particolarità architettoniche che mal si conciliano con l’asserita edificazione seicentesca, a conferma che tali lavori riguardarono solo la costruzione di una Chiesa in aderenza alla preesistente Cappella e, forse, il chiostro, ma non l’intera struttura:

  1. la presenza di molti locali con unghiature nei finestroni e nelle volte;
  2. l’inspiegabile inserimento “postumo” di altarini romani nei pilastri d’angolo del chiostro.

L’Ultima Cena nelle rappresentazioni orientali e occidentali

Tornando all’affresco dell’Ultima cena presente nel refettorio ci sovviene quello similare, di Scuola giottesca, presente in S. Maria Novella a Firenze, in cui egualmente è presente una tavola rotonda, imbandita frugalmente con al centro il vassoio con l’agnello.

Una rappresentazione che in qualche modo è legata alla tradizione bizantina  che permetteva di realizzare scene avvolgenti.

Sotto l’aspetto iconografico è interessante, in proposito, la trattazione fatta da Micaela Soranzo[5] di cui vogliamo riportare alcuni stralci che ben spiegano il passaggio dalla rappresentazione della tavola rotonda a quella rettangolare nella pittura dal ‘300 al ‘600.

L’iconografia dell’ultima cena è definita da uno dei due momenti che la costituiscono: quello dinamico e drammatico dell’annuncio del tradimento, con le reazioni degli apostoli sconvolti dalla rivelazione, e il momento mistico e solenne della comunione degli apostoli; al loro interno si possono distinguere situazioni varie.

Mentre l’arte orientale pone l’accento sul singolo tema della comunione, in Occidente si preferisce puntare l’attenzione sull’annuncio del tradimento; solo dopo il concilio di Trento l’arte della Controriforma si sforza di recuperare la formula bizantina, preoccupandosi di glorificare il sacramento dell’eucaristia e rappresentando l’ultima cena come la prima delle messe. Successivamente il modello più comune vede riuniti i due momenti e soltanto Gesù e Giuda sono individuati in modo più evidente dalle azioni svolte.

 

I primi esempi iconografici si hanno nella tradizione bizantina, che ha imposto per secoli il proprio modello nell’arte cristiana. L’ultima cena è rappresentata da un tavolo semicircolare con attorno i commensali sdraiati, a ricordo del triclinium romano, come nel mosaico di Sant’Apollinare Nuovo a Ravenna (VI secolo).

Gesù e Giuda stanno uno di fronte all’altro, mentre gli apostoli prendono posto tra loro. I convitati sono perfettamente immobili e tutti gli sguardi, specie quello di Giuda, convergono sul Cristo. Spesso gli apostoli sono divisi in due gruppi di sei poiché, in conformità alla liturgia greca, la comunione veniva distribuita sotto le due specie, pane e vino, e due figure di Cristo-sacerdote poste alle estremità del tavolo distribuiscono l’eucaristia ai due gruppi…

Nell’iconografia occidentale, però, Cristo appare sempre una sola volta, con la patena e l’ostia, generalmente senza calice. Nonostante la diffusione della confraternita del Corpus Domini, la vera e propria comunione degli apostoli, con la consacrazione del pane e del vino, risulta poco rappresentata nell’arte del XV e XVI secolo: si possono ricordare un affresco del Beato Angelico per il convento di San Marco a Firenze e un dipinto di Luca Signorelli nella cattedrale di Cortona.

L’arte della Controriforma, con la ripresa del tema della consacrazione e della comunione, ha portato grandi capolavori di artisti come Tintoretto, Barocci, Ribera, Rubens, Tiepolo: l’ultima cena diventa il tema tipico della pala d’altare.

L’arte dell’Occidente cristiano ha elaborato una versione diversa, la cui originalità consiste nel porre l’accento sull’aspetto drammatico del tradimento più che sul carattere sacro della comunione. Generalmente al centro vi è la figura di Cristo, seduto in mezzo ai discepoli, tutti disposti dalla stessa parte tranne Giuda, che gli sta di fronte, isolato, in primo piano sul lato dell’osservatore, neppure lui senza peccato; Giovanni, il discepolo prediletto, poggia il capo sul petto del Maestro.

Il gruppo formato dalle figure di Cristo e Giovanni è spesso staccato dall’insieme e l’incisione dell’Ultima cena di Dürer (1523) mostra come diventi poi una rappresentazione a sé stante in particolare nell’arte tedesca.

Tale esigenza scenografica fa si che in occidente prevalga, ben presto la tavola rettangolare, su quella semicircolare, prettamente bizantina.  Infatti, quella quadrata o rotonda, molto rare, non si prestano a una perfetta visione prospettica dei commensali.

Alla luce di queste considerazioni, ci sembra di poter affermare che il corpo centrale del convento con il suo refettorio affrescato sia antecedente alla data del 1609, replicata in diverse pubblicazioni.

E che tale data sia riferibile unicamente alla costruzione di una nuova Chiesa in aderenza all’antica Cappella gentilizia dei Dentice e alla realizzazione del Chiostro per il vecchio convento.

Purtroppo i recenti lavori di recupero, testé conclusi, inspiegabilmente, non hanno previsto il restauro degli affreschi del refettorio limitandosi solo a quelli nel chiostro. Ma anche qui l’intervento avrebbe potuto offrire l’opportunità ai restauratori di verificare se sotto lo strato di pittura che attualmente appare non ce ne siano altri più antichi, riuscendo difficile pensare che il convento non sia stato dotato di affreschi sin dalla data della sua costruzione, restandone privo per oltre un secolo. Eppure è chiaramente evidente che molte scene affrescate dal Mozzillo lasciano intravedere testi didascalici sovrapposti appartenenti almeno ad altri due strati pittorici più antichi.

Dunque, non avendo previsto la possibilità di indagini stratigrafiche, le prescrizioni del capitolato d’appalto sono state applicate in modo restrittivo e non possiamo che rilevare tristemente che la progettazione di questo restauro avrebbe richiesto competenze molteplici e sinergiche che in questo caso sembrano essere state sacrificate o ignorate. Lo stesso risultato del restauro lascia scontenti molti per il contrasto visivo tra le parti consolidate e quelle mancanti dando l’idea di un lavoro incompleto.

Estratto per Terranostranews da: “L’ultima Cena – Convento di S. Maria degli Angeli, Marano di Napoli”, Gennaio 2014, di Carlo Palermo.

Per gentile concessione dell’Autore. Riproduzione riservata.

 

  1. G. Barleri – Chiesa e Convento di Santa Maria degli Angeli in Marano di Napoli. Marano 1999, pp. 161, 162.

[2] ibidem pp. 8-13.

[3] ASN –  Fondo notai del ‘600,  Gio: Battista d’Alterio, Sch. N°2.

[4] G. Barleri, op. cit. p. 14.

[5] Micaela Soranzo “Arte e Liturgia –  Iconografia dell’ultima cena”. http://www.stpauls.it/vita06/0502vp/0502vp24.htm

 

© Copyright Redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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