L’opinione. Superato Renzi, ora bisogna superare il renzismo

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Non c’è bisogno di scomodare la storiella di Dracula all’Avis, o metafore più colorite dall’analogo significato, per rendersi conto che l’ultima cosa di cui il Paese ha bisogno è che a gestire la delicata fase che ci aspetta sia Matteo Renzi o comunque il renzismo malcelato sotto mentite spoglie. È certamente impensabile che dopo la lunga e lacerante corrida referendaria il primo ministro dimissionario resti ad agitare il drappo rosso da Palazzo Chigi.

Ma non è meno preoccupante lo scenario di consultazioni parallele a quelle del presidente Mattarella, svoltesi a quanto pare nell’ufficio del premier uscente, intento non solo a scegliersi il potenziale successore e a stilare liste dei ministri, ma finanche a fissare la data delle elezioni, a dare la traccia per la legge elettorale prossima ventura e a imbullonare nei posti chiave qualche figura strategica che possa assicurare continuità nella gestione del potere in vista delle nomine di primavera. Come se non fosse successo niente. Come se il metodo delle forzature istituzionali e l’approccio divisivo alle regole del gioco non fosse stato seppellito sotto una valanga di No appena una settimana fa. Come se nel tempo auspicabilmente breve che ci separa dalle elezioni il Parlamento non fosse chiamato a scrivere una nuova legge elettorale evitando di ripetere gli errori del recente passato.

Per decenza ancor prima che per coerenza, Renzi dovrebbe essere il primo a rendersi conto di tutto ciò e a regolarsi di conseguenza. Ma poiché il premier uscente ha già dimostrato scarsa dimestichezza con la coerenza, e un senso della decenza al di sotto della soglia della comune percezione, è utile fissare i passaggi salienti di questi ultimi mesi. Non intendo ritornare sugli strappi, gli atti di arroganza, le lacerazioni che hanno accompagnato l’approvazione della riforma costituzionale e della correlata legge elettorale. Non mi soffermo sul tentativo di legittimare, spaccando il Paese sulle regole comuni, un potere conquistato senza investitura popolare. Il pronunciamento del popolo il giorno del referendum ne ha in qualche modo già fatto giustizia. Ma a fronte alla tentazione surreale di trasformare lo spregiudicato artefice della situazione in cui si trova l’Italia in una sorta di “riserva della Repubblica”, vale la pena ricordare i ripetuti (e unilaterali) falli che hanno segnato l’ultima fase della partita conclusasi il 4 dicembre.

Ha iniziato Maria Elena Boschi, ministro uscente delle Riforme, inaugurando a Bologna agli inizi di aprile il primo comitato del Sì ancor prima che il Parlamento avesse concluso l’esame della riforma. Poi è venuto il balletto sulla data del referendum: dapprima il governo avrebbe voluto trasformare le cabine della spiaggia in cabine elettorali per farci votare a Ferragosto; poi, visti i sondaggi, ha cercato di arrivare a ridosso di Natale sperando che l’occupazione militare dell’informazione e un ricorso sconsiderato all’indebitamento pubblico a fini elettorali potessero ribaltare i pronostici.

Quando finalmente la data è stata fissata, gli italiani sono stati chiamati a pronunciarsi su un quesito-spot formulato in violazione delle pur chiarissime norme di legge in materia. E il decreto legge con cui poco dopo il governo ha prorogato di due anni la permanenza in servizio di pochissimi magistrati apicali, fra i quali il presidente di quella Corte di Cassazione dalla quale il quesito dipende, non ha certo contribuito a fugare i dubbi e a rasserenare gli animi, gettando sulla Suprema Corte l’ombra di un sospetto che essa non avrebbe meritato.

Col solleone incipiente è arrivato il repulisti d’urgenza ai vertici delle testate giornalistiche del servizio pubblico televisivo. Prima ancora, non pago dell’appoggio dei giornaloni filo-governativi, nell’assordante silenzio delle vestali della libera informazione, il vertice dell’esecutivo otteneva da un editore con interessi imprenditoriali variegati, amico di Denis Verdini, la testa del direttore di un quotidiano d’opposizione, sostituito dall’oggi al domani con un altro direttore preventivamente schieratosi per il Sì. A tal proposito la lettura de “I segreti di Renzi”, scritto da Maurizo Belpietro per Sperling & Kupfer, risulta a dir poco illuminante.

Non è andata meglio oltreconfine. I già disdicevoli tour promozionali dei membri del governo, improvvisamente attinti dal sacro fuoco delle missioni all’estero nelle settimane prima del voto mentre la rete diplomatica ostacolava le iniziative di parlamentari schierati per il No, sono apparsi poca cosa quando il ministro Boschi e il senatore Pd Cociancich si sono fatti scappare in diretta Facebook che ai nostri connazionali residenti all’estero sarebbe stata recapitata con una mano la scheda per votare e con l’altra, in “contemporaneità cronologica”, una lettera con la quale il presidente del Consiglio spiegava cosa votare.

Operazione probabilmente inopportuna, certamente costosa. Ma a sostenere economicamente la foga epistolare del presidente del Consiglio pare sia arrivato, fra gli altri, l’amico finanziere amministratore delegato di un fondo con sede a Londra e società di servizi nelle isole Cayman, che evidentemente aveva molto a cuore la Costituzione italiana. E poiché il postino suona sempre due volte, a ridosso delle elezioni una brochure patinata di “Basta un Sì” è planata anche nelle case degli italiani rimasti in patria, con una diffusione massiva che a quanto sembra, per essere completata in tempo, ha costretto il personale delle Poste a turni anomali e prestazioni straordinarie di lavoro (a proposito, chi paga?).

E ancora. Mentre il presidente del Consiglio faceva il giro delle sette chiese elargendo finanziamenti a destra e a manca sotto forma non di canonici provvedimenti istituzionali ma di “patti per le città” dal sicuro ritorno mediatico, il suo governo infilava nella legge di stabilità – la stessa che ha negato le risorse promesse ai bambini ammalati di Taranto – un emendamento che consentisse ai presidenti delle Regioni dissestate di essere nominati essi stessi commissari per la sanità. Casualmente, l’emendamento stava molto a cuore al governatore Vincenzo De Luca che pochi giorni prima aveva invitato trecento amministratori locali della Campania a procurare voti per il Sì a suon di clientele.

Il gran finale è andato in onda in una delle puntate del #matteorisponde, la diretta streaming da Palazzo Chigi dedicata agli utenti dei social network. Dopo aver rimesso al loro posto le bandiere dell’Unione Europea, fatte sparire nella diretta precedente per simulare un finto scontro con Juncker, il presidente del Consiglio ha esibito una patacca a forma di scheda elettorale per il Senato, gabellandola per il fac-simile della scheda che gli elettori avrebbero avuto in caso di vittoria del Sì per scegliere i futuri senatori, senza che il Senato avesse ancora una legge elettorale, noncurante del fatto che quella legge avrebbe dovuto comunque approvarla il Parlamento e non il premier, e omettendo di confessare che in base alla riforma Boschi nessuna scheda avrebbe mai potuto garantire ai cittadini il diritto di scegliere i propri senatori.

Mi fermo qui, anche se si potrebbe andare avanti a lungo. Questo poco edificante catalogo dimostra che la sconfitta di Renzi al referendum non è soltanto la sconfitta di una riforma e di un governo: è anche e soprattutto la sconfitta di un metodo, che il premier uscente non dà alcun segno di voler abbandonare. È la sconfitta della politica come forzatura, come dimostrazione di arroganza, come arte meramente machiavelliana dell’uso della forza. Il grosso lo hanno fatto gli elettori, ma se anche l’Italicum verrà abbattuto – e prima ancora della Corte Costituzionale ad abbatterlo sarà il buon senso – del renzismo resteranno solo macerie.

A produrre queste macerie è stata una vicenda lunga e sfibrante dalla quale il Paese è uscito lacerato. Per ricostruire un tessuto connettivo è necessario dunque archiviare non solo una stagione e il suo protagonista, ma anche e soprattutto il sistema che egli ha messo in piedi. Il primo banco di prova sarà l’approvazione di una nuova legge elettorale che consenta di andare rapidamente al voto: se il pronunciamento degli italiani conta qualcosa, ciò dovrà avvenire con il più largo concorso possibile delle forze politiche e parlamentari. Non è immaginabile che a garantire questo percorso sia il massimo responsabile dello stato di cose in cui ci si trova, le cui mosse di queste ore denotano peraltro assoluta inconsapevolezza di ciò che è accaduto il 4 dicembre. Per rispettare il popolo, superare Renzi non basta. E’ necessario archiviare il renzismo.

Gaetano Quagliariello

© Copyright Redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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