Pelè, i funerali nello stadio del Santos

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È stato più di un uomo che giocava a pallone, era angelo per chi lo adorava, diavolo per chi se lo trovava di fronte. Era il Brasile, carnevale di etnie, di religioni, di razze, di colori, era Edson Arantes do Nascimiento, romanzo, commedia, poesia, racconto favoloso e impossibile oggi da narrare per intero. Pelé non era Di Stefano, Pelé non era Maradona, Pelé non era Zamora, Pelé era di pelle nera e questo, pensando al tempo suo ancora peggiore di quello contemporaneo, ne esalta le imprese. I muscoli di seta, lucidi, feroci, gli garantivano velocità ed eleganza, potenza e precisione, correva silenzioso come un puma, staccava nell’aria come un’aquila, già al decollo preparava la torsione e il colpo di testa, caracollava e calciava silenziosamente e con raffinatezza, di destro e di sinistro, si udiva il colpo, come da una canna di pistola con il silenziatore, la sua chilena fu il fotogramma migliore del film di John Huston, Fuga per la vittoria, là dove i gerarchi nazisti si dovettero arrendere all’arte dell’uomo negro.

Il nome che da bambino i suoi compagni di giochi gli appiccicarono addosso, lui tifoso di un portiere chiamato Bilé, ha aiutato la sua leggenda, quattro lettere facili da pronunciare, impossibili da dimenticare, lasciapassare di qualunque confine, anche là dove il calcio è merce ignota. Edson era all’anagrafe un nome sbagliato, suo padre adorava l’inventore della lampadina, Pelé avrebbe dato la luce al calcio, riassunto di un secolo grandioso di questo sport passato da semplice divertimento di squadra a fenomeno sociale e poi imprenditoriale e infine finanziario. Era nato il 23 di ottobre del Quaranta nella città di Tres Coracoes nel Minas Gerais. I tre cuori sarebbero stati la sua fede religiosa, cattolico fedele con qualche peccato di percorso, tre matrimoni e un numero non precisato di figli, tra sette e dieci, non tutti riconosciuti.

Nella lingua portoghese la partita si traduce O jogo, così come nel vocabolario del football mondiale sta scritto O Rei, sovrano accettato e riverito da tutte le repubbliche dove i titoli nobiliari sono decaduti ma quelli calcistici resistono. Aveva diciassette anni quando scoprì l’altro continente, venne in Svezia per i Mondiali del 58, la formazione brasiliana aveva nomi da cadenze musicali, i due Santos, Nilton e Djalma, Vavà, Didì, il ragazzino con i capelli a spazzola segnò tre gol alla Francia in semifinale e due nella partita decisiva alla Svezia. Fu il primo dei tre trionfi mondiali, l’inizio dell’epopea. Il gol realizzato all’Azteca di Città del Messico, nella finale contro l’Italia, resta l’immagine migliore e più prepotente della sua classe, Tarcisio Burgnich abbandonò, per ordine di Valcareggi, la marcatura di Rivelino lasciandola a Bertini e si spostò sul re, il cross lo trovò quasi impreparato, la roccia friulana di Ruda tentò comunque lo stacco, saltando storto e allungando tutto il braccio destro, Pelé aveva già preso l’ascensore, salendo un piano più in sù, perfida la deviazione di testa, credo che nell’aria dello stadio messicano si senta ancora il fruscio di quel momento. Giocò una volta in Italia, era il maggio del Sessantatré, e lo marcò Trapattoni che per questo passò alla storia come l’uomo che fermò Pelé, il quale agevolò l’impresa del Giuàn perché si presentò con una gamba fessa causa stiramento, dopo mezzora salutò il Trap e il resto della comitiva.

© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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