Derenzizzare il Pd, è partita la caccia ai fedelissimi dell’ex premier

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Il presidente del Consiglio Matteo Renzi e il ministro delle Riforme Maria Elena Boschi lasciano il Senato dopo l'incontro con i senatori del Partito, Roma, 19 Gennaio 2015. Italian premier Matteo Renzi with Reforms Minister Maria Elena Boschi after the meeting with senators of Democratic Party at Italian Senate, Rome, 19 January 2015. ANSA/ GIUSEPPE LAMI
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Di gran carriera, sono riprese febbrili manovre per azzerare i cacicchi dell’ex premier. La rivolta parte dal parlamento, dove però Renzi controlla ancora 103 tra deputati e senatori, e arriva in periferia. Ras locali, residuati postcomunisti, abili fiutatori: i neozingarettiani sono sul piede di guerra. Ma sminare il terreno sarà una missione ardua e perigliosa. All’armi, dunque. A partire dalla Sicilia.

Il deputato regionale Antonello Cracolici alle primarie di due anni fa guidava la lista a Palermo per Renzi. Adesso, capo degli zingarettiani nel capoluogo, maramaldeggia: «Un partito di marmellata, aperto a forzisti e pezzi di centrodestra. Qualcuno dovrebbe trarne le conseguenze…». Capito l’ambientino? Del resto lo stesso Zingaretti, un mese fa, aveva invocato rinnovamento: «Quello che è successo in Sicilia è un vulnus che divide». E l’arresto per associazione mafiosa dell’ex deputato regionale Paolo Ruggirello, uno dei renziani acquisiti, rende l’aria pestifera.

La Sicilia, storica trincea del funambolismo politico, ora guarda avanti. Barra dritta anche in Puglia: il passato deve passare. Ma il segretario regionale del Pd, Marco Lacarra, teme imboscate: «Mi auguro che non ci siano persone che giocano sempre a sfasciare…». Il sindaco di Bari, Antonio Decaro, già renziano, ha preso debite distanze. E il governatore pugliese, Michele Emiliano, paragona addirittura il fu presidente del consiglio a Lord Voldemort, il mefitico nemico di Harry Potter: «Ha fatto danni incalcolabili».

Ma nel tacco d’Italia Renzi può contare ancora su aficionados di peso. A partire dai senatori Dario Stefano e Teresa Bellanova. Perfino in Lazio, patria del vittorioso Zingaretti, la transizione rischia di arenarsi. Il segretario del Pd romano, Andrea Casu, è stato eletto due anni fa con un colpo di mano dell’ex premier. Fiutato il vento, tende però il ramoscello: «Dovremmo liberarci dall’ossessione di parlare sempre e solo di Renzi» sollecita Casu. «Offriamo tutti la massima collaborazione al nuovo segretario. Non è certo il momento di aprire una nuova stagione di rappresaglie, rese dei conti e lotte intestine nei territori».

Lo stesso, furbesco, auspicio del senatore dem Matteo Richetti, senatore e notabile emiliano: «Non possiamo immaginare un partito che rinunci a Renzi». Il guanto di sfida è lanciato: «Guai a perdere per strada qualcuno: tanto più chi ha guidato sia il partito, sia il governo negli ultimi anni».

Nell’Emilia-Romagna di Richetti, il sindaco di Bologna, Virginio Merola, è però allineatissimo con il neosegretario. E il governatore, Stefano Bonaccini, ha preso ampie distanze dall’ex premier, che difatti l’ha aspramente criticato per le sue smanie autonomiste. Pure la vicepresidente della regione, Elisabetta Gualmini, ha da tempo virato. Adesso è in lizza per guidare la circoscrizione Nord est alle prossime europee. Insomma, derenzizzazione in corso. Come in Liguria, del resto. Anche qui, però, si temono agguati. Così il capogruppo Pd alla regione, Giovanni Lunardon, altro zingarettiano doc, avverte i riottosi: «Gli elettori c’hanno dato un mandato: costruire un’alleanza. Se ci mettessimo a contare all’interno, ci prenderebbero a calci nel sedere».

Profezia che rischia di avverarsi in Toscana, dove cominciò la primavera renziana. Qui la smobilitazione è tribolatissima. Eppure alle primarie gli elettori hanno scelto in massa l’unico candidato avverso all’ex segretario. Ogni simbologia è stata dissacrata. Zingaretti stravince a Firenze, guidata da Renzi fino al 2014. Prevale a Rignano sull’Arno, feudo di famiglia. S’impone a Montelupo Fiorentino, dove abita Luca Lotti. Conquista Laterina, paese di Maria Elena Boschi.

L’«altra strada», evocata da Renzi nella sua ultima fatica letteraria, la Toscana l’ha presa davvero. Ma è opposta a quella imboccata dall’ex premier. Il partito però fatica a seguire la volontà popolare. La segretaria regionale dem, eletta pochi mesi fa, è la turborenziana Simona Bonafè. «Ottimo politico che saprà fare scelte conseguenti…» dice sapido l’ex deputato Federico Gelli. «È ora di farla finita di scegliere i più fedeli. Si scelgano i migliori».

Con Gelli, già fedelissimo del rottamatore, hanno saltato la staccionata due assessori e tre consiglieri regionali. Oltre che la senatrice fiorentina Rosa Maria Di Giorgi. E la diaspora non sembra terminata. Tre due mesi, però, si vota per il nuovo sindaco di Firenze. Dario Nardella, erede designato, punta alla riconferma. Ma in Toscana ci sono pure gli indomiti dioscuri del giglio magico: Lotti e Boschi. Nonché l’agguerritissimo capogruppo Pd al Senato, Andrea Marcucci. E il tesoriere dei democratici, in odor di rimozione, Francesco Bonifazi. Che, ultimo dei samurai, sul Corriere della sera avverte: moriremo renziani.

Il governatore toscano, Enrico Rossi, è però fiducioso: «Bisogna riaprire la discussione e il processo unitario all’interno della sinistra». Insomma, come da tradizione, serve il «dibattito». Che però è già diventato schermaglia per la scelta dei candidati al consiglio comunale di Firenze: in lista si mettono più zingarettiani o renziani? I due leader, intanto, continuano a guardarsi di sottecchi. «Ho sempre avuto con lui rapporti schietti e leali. Vorrei che continuassero ora che i ruoli sono cambiati»dice Zingaretti. «Non ha nulla da temere» ratifica Renzi. Frase che ricorda quell’«Enrico stai sereno» pronunciato prima di giubilare Letta. La pregiata Treccani, nel dubbio, resti dunque in allerta. Parafrasando Mark Twain: la notizia della morte del renzismo è fortemente esagerata.

© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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