Boss dissociati? Per il pm solo scelte utilitaristiche. Niente sconti di pena

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CRO NAPOLI Camorra, preso a Licola il boss Cesare Pagano. Era il capoclan degli «scissionisti» di Scampia. Inserito nella lista dei 30 latitanti più pericolosi. Si nascondeva in una villa sul litorale flegreo a poca distanza dal mare. Diede vita con il clan Di Lauro alla sanguinosa faida di Scampia. IN FOTO L'ARRESTATO CESARE PAGANO (NEWFOTOSUD)
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Un «l’ho fatto e mi dispiace» confessato in aula può bastare a evitare l’ergastolo, ottenere le attenuanti generiche e sperare in un alleggerimento del regime detentivo? Per il pm Stefania Castaldi la risposta è un secco no. E lo spiega nella requisitoria al processo per l’omicidio Montanino-Salierno, agguato che il 28 ottobre 2004 in via Vicinale Cupa dell’Arco, a due passi dal bunker del boss Di Lauro, innescò la miccia della guerra che spaccò in due il mondo del narcotraffico tra Secondigliano, Scampia e tutta l’area nord: da una parte i Di Lauro e dall’altra gli Amato-Pagano. Fu una guerra feroce. Da quegli anni il pm Castaldi indaga sui clan della faida. Strateghi e killer attenti a ogni dettaglio tanto da indurre il magistrato ad affermare che «se non fosse stato per i collaboratori di giustizia non avremmo ricostruito tutti i delitti».

Perché con il riconoscimento delle attenuanti la difesa potrebbe ridiscutere il rinnovo del 41 bis e i boss potrebbero liberarsi del fardello del carcere duro tornando ad avere colloqui e contatti con il mondo esterno. «E il lavoro di undici anni dello Stato sarebbe così vanificato» chiosa il pm che in aula ricostruisce la genesi della scissione e il momento in cui, con l’omicidio di Fulvio Montanino e di suo zio Claudio Salierno, si decise di dichiararla apertamente; illustra i ruoli di capi e gregari; descrive la tecnica del clan di utilizzare i figli dei killer come ostaggi a garanzia del buon esito delle loro azioni, cosa che accadde anche per quel primo delitto. Uno degli imputati dal gabbiotto la interrompe: «Fai i nomi» urla. Il pm non si scompone e snocciola un elenco di nomi e fatti. Per anni ha indagato su affari e storia del clan, di recente anche sui due Van Gogh trovati in casa di un mediatore in affari proprio con gli Amato-Pagano.

E il caso di Cesare Pagano è tra quelli su cui il pm si sofferma più a lungo: il boss, capo del gruppo scissionista, in un processo in Assise Appello in cui rispondeva di due omicidi, a febbraio scorso, decise di confessare dissociandosi dalla camorra e ammettendo di aver ordinato quei delitti. La conseguenza fu uno sconto di pena a 30 anni con le attenuanti generiche. «Ma quale dissociazione? – tuona il pm durante la requisitoria – Come si fa a dissociarsi con un clan fuori, i patrimoni e le attività? Sarebbe stato diverso se Pagano ci avesse detto dove sono i soldi». Per il pm, dunque, le ammissioni in aula di Pagano come quella del nipote Carmine, di Gennaro Marino («che nel 2015 smentisce uno dei pentiti che lo accusano e nel 2016 ammette le proprie responsabilità» sottolinea l’accusa), di Ciro Mauriello («che confessa perché ha un magone da dodici anni»), di Arcangelo Abete (che si limita ad ammettere l’addebito) e Vincenzo Notturno (che chiede scusa alle famiglie delle vittime) non sarebbero dettate da una reale presa di coscienza. «Sono utilitaristiche» dice il pm. E conclude: «La camorra è a vincolo definitivo, l’unico modo per uscirne, se non da morti, è collaborare con la giustizia. Non ci sono altre vie».

Il Mattino

© Copyright Redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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