L’angolo dello psicologo. La seduzione della chirurgia plastica: come piacere di più agli altri e perdere di vista noi stessi

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Gentile dottore, all’età di 45 anni, donna ammirata e in carriera bancaria, realizzata nel lavoro, mi accingo a fare il mio quarto intervento di chirurgia plastica. Sono attenta alla mia bellezza, mi curo tantissimo e non posso fare a meno di cercare la perfezione nel mio corpo, che da tempo provo a correggere e modificare. I miei interventi non sono mai estremi, ma per me sono indispensabili, perché è una forma di cura, di attenzione alla estetica e alla salute. Già so quale sarà il prossimo, secondo un programma che è il risultato di discussioni con il mio chirurgo, che però mi costringe sostanzialmente alla prudenza. Purtroppo non sono mai soddisfatta dei risultati e quindi sono ritornata due volte a correggere il naso e due volte a correggere la misura del seno. Certamente non trascuro la palestra e la dieta, nè la medicina preventiva. Vorrei, a volte liberarmi di questo bisogno continuo di trasformazione, per somigliare all’immagine di una me ideale. Lo faccio per piacere di più, sono attratta dagli sguardi ammirati degli altri, ma poi mi dico “piacere a chi? Se non c’è un uomo accanto a me?”

Emiliana (Mugnano)

Cosa significa prendersi cura di sé? In che senso, verrebbe da dire, se la cura si esprime attraverso continui e discutibili interventi sul proprio corpo, dalla seduta massacrante di fitness alla chirurgia estetica? Ci si prende cura del corpo come di un oggetto alienante, affidato alle mani di un altro, per poterlo rendere quanto più appetibile sul mercato. La vera strada della cura, però, passa attraverso altri percorsi, poco visibili e per questo lontani dal conformismo e da una logica che vede tutti fatti in un certo modo, per essere oggetto dell’immaginario erotico dell’altro. Un benessere che passa attraverso uno sguardo, che diventa indispensabile ai fini della propria esistenza: ci fa sentire vivi, perché un altro ci fa sentire vivi, importanti, degnando di attenzione la nostra presenza. In gioco quindi c’è qualcosa di molto più profondo, che non ha a che fare con un criterio di approvazione oggettiva, ma riguarda l’ambito della propria consapevolezza e responsabilità. Non può essere solo uno sguardo a farci sentire vivi, adeguati, accettati perché desiderabili. Non ci si può muovere come in un palco, in una esibizione continua, alla ricerca di un like. Non è attraverso un “mi piace” che si riesce a trovare la strada della propria consapevolezza interiore; oltre le sensazioni corporee esistono le emozioni, solo esse ci aprono all’alterità, per poter essere riconosciuti nella propria essenza. Il proprio desiderio passa attraverso il desiderio dell’altro e si nutre della mancanza in genere, così come l’amore si fa sentire quando l’oggetto dell’amore è lontano, nella sua apparizione fisica perfetta. Se è amore, è amore per il nome dell’altro, e non per un feticcio che può diventare un seno o uno zigomo. Questi non avranno che il valore simbolico di un oggetto da buttare.

Dott. Raffaele Virgilio, psicologo e psicoterapeuta

raffaelevirgilio@gmail.com

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