L’Italia degli imboscati del pubblico impiego e di chi vorrebbe lavorare

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Un ragazzo in cerca di lavoro davanti a una agenzia interinale, in una foto del 31 maggio 2010 a Pisa. ANSA/ FRANCO SILVI
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Cosa dobbiamo pensare quando a Palermo 270 netturbini hanno potuto esibire un certificato medico che vieta loro di spazzare le strade; quando in Calabria oltre la metà del personale sanitario riesce a farsi trasferire dietro una scrivania e il 50 per cento dei dipendenti della protezione civile lavora al centralino; quando a Como gli operai assunti dal Comune diventano di colpo impiegati; quando a Pescara 50 infermieri e operatori socio-sanitari svolgono mansioni solo amministrative; quando a Firenze il 40 per cento dei vigili urbani passa più tempo in ufficio che in strada?

Ecco a voi l’Italia degli imboscati. Sbaglierebbe chi volesse vedere in questo fenomeno comportamenti palesemente illegittimi. Non stiamo parlando dei furbetti che timbrano e se ne vanno a spasso, degli assenteisti cronici, o di altri piccoli truffatori del pubblico impiego. Stiamo raccontando una storia di formale legalità, non per questo meno scandalosa: la storia di chi, soprattutto nel settore pubblico, riesce senza fondate motivazioni a evitare, per “inidoneità parziale” o per abuso della legge 104, il lavoro per il quale è stato assunto (un lavoro spesso duro, faticoso, delicato) facendosi trasferire tra le scartoffie di un ufficio, lontano dalla strada, lontano dai cittadini. Una premessa è d’obbligo: andare incontro a malattie o infortuni parzialmente invalidanti o dover assistere parenti disabili sono sacrosante e indiscutibili ragioni per cambiare mansione, per evitare i lavori più gravosi, o più semplicemente per avere permessi e congedi. Ma qui stiamo parlando dell’abuso che si fa di questi diritti, grazie a migliaia di sconsiderate autorizzazioni rilasciate dalle commissioni mediche. La conseguenza è doppia: si creano vuoti preoccupanti nei lavori più richiesti (dagli infermieri ai vigili urbani) caricando un peso sempre più insostenibile sulle spalle di chi nel pubblico impiego dà l’anima tutti i giorni; e si penalizza chi tra i lavoratori avrebbe veramente bisogno di assistenza.

I  ruoli vietati. Che il 12% dei dipendenti della sanità pubblica, circa 80 mila persone, per lo più donne – è riuscito a farsi riconoscere una serie di limitazioni alla propria idoneità lavorativa, con punte del 24% tra gli operatori socio-sanitari, seguiti dal 15% degli infermieri. La metà di quegli 80 mila – dice una ricerca a campione targata Cergas-Bocconi – ha diritto a non sollevare i pazienti e a non trasportare carichi troppo pesanti (un lavoro burocraticamente chiamato “movimentazione di carichi e pazienti”). Un altro 13 per cento non può lavorare in piedi, il 12 non lo può fare di notte. Il resto viene esentato da una lunghissima serie di operazioni: essere esposti a videoterminali, a rischi biologici, chimici e allergie, stare a contatto con i pazienti, fare lavori che producono stress, operare in taluni reparti, e così via. Certo, lavorare in una corsia di ospedale può sicuramente creare problemi anche gravi, e tuttavia è difficile considerare normali percentuali di lavoratori “inidonei” che toccano e superano in qualche caso il 25 per cento. Anche perché in settori privati ugualmente pericolosi (se non di più) non c’è la stessa possibilità di vedersi alleggerire il proprio carico di lavoro.

I record del Sud. E’ soprattutto al Sud che l’esercito degli “inidonei” si infittisce in misura anomala. Nell’Azienda sanitaria provinciale di Reggio Calabria, su 1.178 dipendenti, 652 (oltre la metà) lavorano a regime ridotto. Ottanta psicologi della sanità regionale – come più volte denunciato dal commissario straordinario Massimo Scura, invece di aiutare i pazienti, sono finiti negli uffici amministrativi. Tutto in Calabria sembra funzionare al contrario: più di cento medici lavorano nel reparto prevenzione, dove ne servirebbero meno della metà, e rimangono invece scoperti screening oncologici e assistenza domiciliare. Ma gli imboscati non sono solo nella sanità. Un terzo dei vigili urbani di Napoli ottenne tempo fa certificati medici che consentivano loro di evitare la strada. Qualcuno non poteva guidare l’auto di servizio, qualcun altro neppure rispondere al telefono o stare più di pochi minuti al computer.

Repubblica

© Copyright redazione, Riproduzione Riservata. Scritto per: TerranostraNews
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