Vivo a Portici e tempo fa ho dovuto prendere un autobus per recarmi in ufficio a Napoli. Un guasto dell’auto, banalissimo, mi ha improvvisamente proiettato in un mondo assurdo, fatto di sofferenza, di sudori, di stanchezze inenarrabili. Un autobus pieno di extracomunitari, anch’essi probabilmente si spostavano per lavoro; tutti erano seduti, sonnolenti ma con gli occhi aperti, lo sguardo allucinato di chi non ha casa e forse ha dormito in terra, in qualche vecchia masseria. Io solo in piedi, timoroso di un contatto; io che racconto ai miei figli l’affondamento dei clandestini nei barconi della morte come una tragedia dell’umanità, io che non mi ritengo razzista e sono “tanto gentile” con quelli che ai semafori puliscono i vetri, e scambio sempre qualche parola, così tanto per sentirmi più solidale, più di sinistra, più ecumenico. Io ho provato nausea, avevo ribrezzo, mi sono sentito naufragare nella sofferenza e non riesco a guarire da questa sensazione di repulsione che innanzitutto mi addolora, ma che pure mi appartiene.
Aldo (Portici)
Chi è lo straniero? Cosa porta di così inquietante questa persona che non conosciamo? Non sappiamo da dove viene, né dove è diretto, semmai abbia una meta. Cosa lo rende così diverso da noi? Paure ancestrali, simili a quelle che vivono i bambini, nella cui fantasia si lasciano radicare sentimenti e angosce riferiti al “uomo nero”, al “lupo”, a questo colore che nell’immaginario comune definisce il mistero, l’ignoto. Così come è misterioso e ignoto l’uomo che arriva da lontano, che porta sul volto uno smarrimento di chi non è più in contatto con le sue origini, sradicato, cela la sua storia, la sua identità. In questo smarrimento ci perdiamo anche noi, impauriti dall’uomo nero, visto come metafora di tutto ciò che è diverso da noi, estraneo. Così si perde la sua storia nelle sue sofferenze, la sua identità nei suoi bisogni, come le sue abitudini e le sue preghiere “diverse” si perdono insieme alla sua umanità. L’ex-straneo che ci infastidisce, inquina la nostra cultura e ci rende più deboli, invade il nostro spazio, che desideriamo difendere proprio come fanno i bambini quando vedono occupati i propri territori.
Perché ci si difende da queste persone con la generalizzazione, la diffidenza, la banalità dei luoghi comuni e, soprattutto con l’insofferenza? L’intruso, così considerato, non è mai invitato, si presenta all’improvviso, crea disarmo, sgomento, e per questo va allontanato e isolato. Ci si difende dagli intrusi innalzando confini, muri sempre più alti, con l’unico obiettivo di lasciarli fuori. Non importa conoscerli, non interessa la loro storia. E’ questa la soluzione? Sicuramente no. Ma sarà così fino a quando non ci si renderà conto che l’identità non va tutelata con il rafforzamento delle proprie difese, che è un processo anche naturale, e né con la chiusura che diventa un rifugio contro l’angoscia della perdita e lo smarrimento dell’appartenenza. L’angoscia e il panico bisogna guardarli per poterli riconoscere in noi stessi, sicuramente hanno a che fare con parti personali. Quello che ci spaventa dall’estraneo forse non è così distante da noi, e non risiede tanto nella sua diversità, ma nel suo rappresentare lo specchio delle nostre debolezze. Noi ci riflettiamo in esso e ci immergiamo nel mistero: Quanto di straniero c’è in noi?
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